Francesco Fortunato
3 minuti per la letturaVIBO VALENTIA – Avrebbe ucciso un uomo a colpiti di Kalashnikov e di fucile calibro 12 l’uomo fermato dai carabinieri del Comando provinciale di Vibo Valentia in esecuzione di un decreto di fermo emesso dalla Procura distrettuale di Catanzaro.
Si tratta di Francesco Salvatore Fortuna, 36 anni, ritenuto esponente di spicco e killer della cosca di ‘ndrangheta dei Bonavota attiva a Sant’Onofrio alle porte di Vibo Valentia. L’uomo, come detto, è indiziato dell’omicidio del pluripregiudicato Domenico Di Leo, ucciso nell’estate del 2004 a 33 anni.
Le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri e dal sostituto Camillo Falvo e condotte della Compagnia di Vibo Valentia, sono partite dal taglio di mille ulivi patito nel 2011, quale estorsione, da una cooperativa con scopi benefici gestita anche da religiosi a Stefanaconi, concluse dall’Arma, dopo due anni, con l’arresto dei vertici del clan dei Bonavota.
Nell’ambito di questa inchiesta sono state approfondite anche le dinamiche interne al clan e sarebbe stato scoperto come l’omicidio di Di Leo sarebbe maturato nell’ambito di contrasti interni alla cosca di ‘ndrangheta, originati da differenti vedute sulla allocazione di imprese nella zona industriale di Maierato. Il direttorio della consorteria, infatti, propendeva per la realizzazione di un centro commerciale, mentre Di Leo per una catena di autolavaggi. Il pretesto dell’omicidio è stato individuato in un’offesa fatta da Di Leo ad un maggiorente dei Bonavota, che aveva intrattenuto una relazione sentimentale con la cugina, da lui non condivisa.
Nel risalire all’accaduto si è rivelato determinante l’apporto dagli accertamenti scientifici dei carabinieri del Ris di Messina. In particolare, è stato il dna isolato in guanti di lattice ritrovati sul luogo dell’omicidio a portare al fermo di Fortuna. Il dna isolato ai tempi del delitto è stato confrontato con quello di Fortuna dai carabinieri del Ris di Messina trovando «una rispondenza del cento per cento tra i due corredi genetici».
«Dopo 12 anni – ha detto il titolare dell’inchiesta Giovanni Bombardieri – siamo riusciti a fare luce, almeno in parte, su un fatto di sangue legato alla criminalità organizzata del vibonese grazie agli esami tecnico scientifici. Il fermo è stato necessario perché anni fa Fortuna si era reso latitante e il giorno dell’arresto è stato ritrovato con diverse armi».
Il magistrato ha evidenziato come il delitto «non è stato commesso solo da Fortuna, quindi le indagini continuano e siamo ottimisti per la risoluzione sia di questo che di altri omicidi». Di Leo, secondo le ricostruzioni fatte dai carabinieri di Vibo Valentia «non era più gradito e doveva essere eliminato. La vittima – ha detto il colonnello Daniele Scardecchia comandante provinciale dei carabinieri di Vibo – era il genero di Antonio Bonavota che in una intercettazione ha detto: ‘Se uno deve morire a un certo punto deve morire, decretando la fine di Di Leo e lasciando sua figlia sola con dei bambini piccoli».
Le indagini sono state indirizzate verso Fortuna, dopo che gli investigatori hanno ascoltato le intercettazioni relative all’inchiesta delle estorsioni alla cooperativa di religiosi di Stefanaconi «Talita Tum» che nel 2011 subì il taglio di numerosi alberi di ulivo come intimidazione. «Il tempo – ha concluso il capitano Diego Berlingeri, comandante della compagnia dei carabinieri di Vibo – ci ha dato ragione. Abbiamo messo a sistema una serie di attività realizzate in periodi diversi ottenendo un successo».
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA