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IL presidente della Svimez, Adriano Giannola, in visita a Potenza, ha detto che le macroregioni non servono, anzi, che «sono una follia». Io invece mi chiedo se non sia una follia l’apparato burocratico presieduto da Giannola, cliente di lusso delle stesse regioni, e assai specializzato in analisi numeriche – non poche volte cangianti dalla sera alla mattina – che hanno come unico obiettivo, almeno così mi sembra, di tenere viva la questione meridionale nella sua accezione assistenzialistica, ovvero i professionisti-burocrati del meridionalismo “romano”.
La sortita conservatrice di Giannola mi ha fatto tornare in mente il dirompente editoriale che Lucia Serino ha scritto qualche giorno sul “Quotidiano”, e che era intitolato “Potenza e Matera divise? Non perdemmo l’identità”. La Serino concludeva così il suo articolo: “Separare Potenza da Matera è davvero il male minore che abbiamo davanti. E non è detto che sia un male”. E da qui vorrei partire per una riflessione che spero possa sortire qualche risposta critica ben argomentata al posto dei soliti veti facili e dei soliti insulti un tanto al chilo.
Io ammetto, da lucano – lucano dell’area sud, zona Pollino – di sentirmi alquanto eccitato – a differenza di Giannola – all’idea, fra qualche mese o anno, di far parte della cosiddetta Regione del Ponente, la macroregione che accorperebbe, secondo le intenzioni di alcuni parlamentari, la Calabria e la Provincia di Potenza.
L’idea di ridurre le nostre Regioni da 21 a 12 sarebbe non solo positiva per gli evidenti vantaggi economici e amministrativi che possiamo immaginare (riduzione dei costi, dimezzamento del ceto politico locale, minore frammentazione programmatica, ecc.) ma soprattutto perché rimescolerebbe le carte identitatarie, i confini accettati un po’ troppo pedissequamente e perché accorcerebbe l’eccessiva divaricazione tra lo Stato centrale e le rivendicazioni “particulari” ora dei pugliesi, ora dei lucani, ora dei calabresi, ecc. – come fossero, i cosiddetti enti locali, consessi identitari un po’ tribali sempre in lotta con “quelli di Roma”, ovviamente colonialisti e “indifferenti alle esigenze dei territori”.
Io mi sento lucano, anche se mi è sempre risultato difficile spiegare agli altri, soprattutto ai miei conterranei, il senso della “lucanità” – sul tema, francamente, abbiamo fin troppo litigato, negli ultimi anni, e forse è arrivato il momento di allargare la discussione. Eppure mi sento anche calabrese, perché sono cresciuto nell’area sud della Basilicata, che da sempre ha stretti rapporti economici e sociali con la provincia di Cosenza. Più volte mi è capitato di pensare di avere molte più cose in comune con un cosentino che non con un materano, molto più segnato dalla “pugliesità”, ovvero da un carattere levantino – benché dire “carattere levantino” significhi poco o niente. Eppure, secondo storia e geografia, un materano dovrebbe sentirsi lucano come me, cioè allo stesso modo di come io mi percepisco, eppure so per certo che non sono pochi i materani che si sentono più pugliesi che lucani, e dunque più vicini a Bari che non a Potenza.
C’è anche un’altra cosa che mi entusiasma, di questa possibilità di riforma: l’idea, da domani, di avere i “titoli territoriali” per parlare di una terra, la Calabria, della quale molto conosco e per la quale non poche volte soffro, ma sulla quale spesso devo tacere per un’oscura legge di “non ingerenza”, essendo io, appunto, lucano.
C’è solo un problema, nei primi schemi cartografici che vedo sulla stampa, e cioè che alcune suddivisioni sono eccessivamente grossolane. Faccio un esempio. La provincia di Potenza, che passerebbe in blocco nella Regione del Ponente, non è tutta uniforme per indole e carattere. L’area sud della Basilicata – quella al di sotto della Val d’Agri – è sicuramente accostabile alla Calabria, ma quella al di sopra – da Viggiano a Lavello, tanto per dare due confini di massima – sarebbe molto più opportuno farla rientrare nei territori della cosiddetta Regione Tirrenica.
In questo senso sarebbe il caso, per evitare facili ostracismi e proteste populiste, coinvolgere maggiormente geografi, antropologi e storici per calibrare al meglio le macroregioni che, per quanto dovranno inevitabilmente determinare un rimescolamento identitario, è pur sempre il caso che vengano concepite con un criterio di minima omogeneità che possa essere accettata pacificamente dal senso comune – intravedo non pochi punti critici, dalla provincia di Campobasso “annessa” alla Puglia fino alla totale scomparsa del Lazio.
Prevedo anche un altro problema, per la Regione del Ponente: il capoluogo. Sappiamo tutti come andarono le cose nel 1970, allorquando si decise di designare Catanzaro al posto di Reggio Calabria.
Non credo, carta geografica alla mano, che il capoluogo potrebbe rimanere a Reggio Calabria (troppo distante per gli “ex lucani”).
La soluzione di compromesso potrebbe essere Cosenza, ma ho paura che si possano riaprire, soprattutto in Calabria, vecchie ferite mai veramente sanate.
Non sono riflessi localistici, queste questioni che sto ponendo, ma consigli pratici per invitare alla prudenza e allo studio attento dei territori i nostri parlamentari “costituenti”, che altrimenti offrirebbero molti argomenti agli oppositori di una riforma epocale che mi sembra necessaria e utile per rendere più agile e dinamico il sistema degli enti locali, squalificato da troppi decenni di sprechi, clientelismi, parassitismi politici e da opportunistici identitarismi.
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