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POTENZA – Ha aspettato 14 anni per finire davanti a un giudice e difendersi dall’accusa di aver riciclato i soldi dei clan. Lei alla Banca di credito cooperativo della Valle del Melandro eseguiva soltanto gli ordini dei suoi superiori, e non si è mai resa conto che dietro i nomi sui conti correnti aperti con le sue credenziali si celavano soltanto identità fittizie.
E’ arrivato alle battute finali il processo sulla “banca dei clan” a carico dell’ex direttore dell’agenzia di Satriano Antonio D’Ottavio, la moglie Antonietta Massimino, l’ex impiegata Rocchina Meliande, e 6 amministratori della “Blu eyes srl”: Vincenzo Diodato, Massimo Russo, Rosaria Bianco, Lucia Pappalardo, Gennaro Gasparro e Patrizia Liguori.
Ieri mattina di fronte al collegio del Tribunale presieduto da Aldo Gubitosi è comparsa Rocchina Meliande, ex addetta alla segreteria dell’agenzia di Satriano.
«Non ho mai conosciuto il signor Diodato prima di aver letto il suo nome negli atti di questa inchiesta». Ha spiegato la donna, assistita dall’avvocato Gaetano Basile, che è nel 2001 è stata raggiunta anche da un’ordinanza di custodia cautelare.
«Al Credito del Melandro eravamo in 6 dipendenti, tutti facevano un po’ di tutto, ma sempre rispondendo ai diretti ordini dei nostri superiori».
La Meliande ha evidenziato che non tutte le operazioni “fittizie” sui conti correnti riconducibili a Diodato, quindi all’omonimo clan, sono state compiute da lei.
«In qualche caso- ha aggiunto – risultano effettuate in giorni in cui io ero addirittura assente, perché in servizio a Potenza o in altre sedi della banca. Non ho mai aperto un conto corrente senza un documento che attestasse l’identità del suo titolare. Io non ho mai aperto conti corrente fittizi intestati a persone inesistenti».
Eppure gli inquirenti sembrano convinti che a Satriano, nell’agenzia della Bcc della Valle del Melandro, ce ne fossero diversi. E anche ieri il pm Francesco Basentini, che ha ereditato il fascicolo dal collega Vincenzo Montemurro, l’ha incalzata più volte sul punto.
La prossima udienza è stata fissata il 15 febbraio per iniziare a sentire i testimoni della difesa.
«Oggi per il mio assistito residua soltanto un’ipotesi di riciclaggio aggravata dalla finalità mafiosa». Ha spiegato al Quotidiano l’avvocato Pantaleo Chiriaco, che assiste D’Ottavio, ex direttore dell’agenzia di Satriano. «Ma su questo aspetto è stato già sentito anche un collaboratore di giustizia, Gennaro Cappiello, che non ha fornito grandi delucidazioni. Quanto al mio assistito si consideri che era il direttore di un’agenzia, poi c’erano un collegio sindacale e un consiglio di amministrazione che non sono stati mai inquisiti nonostante avessero degli obblighi di controllo su quanto accadeva nella banca. Se c’è stato davvero questo riciclaggio, non si comprende come siano potuti restare indenni, dopo le dimissioni a seguito dell’ispezione della Banca d’Italia. Diodato su quei conti corrente ha pagato circa 500milioni di interessi. E risultano conti correnti e operazioni compiute anche in un’altra agenzia della banca, quella di Tito, in cui D’Ottavio non c’entrava nulla».
L’inchiesta sulla cosiddetta “banca dei clan” era salita alla ribalta delle cronache nazionali nel 2001 con gli arresti eseguiti dalla Direzione distrettuale antimafia guidata dall’allora procuratore Giuseppe Galante.
Secondo l’ipotesi iniziale degli investigatori nelle casse dell’istituto di credito sarebbero stati raccolti soldi di diversi clan pugliesi, campani e calabresi, frutto del racket e di imprecisati giri di usura. Quindi venivano riciclati con l’apertura di conti correnti di comodo e una serie di complesse operazioni contabili.
l.amato@luedi.it
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