Benito Mussolini con il quadrumvirato
9 minuti per la letturaPER UN apparente paradosso il Partito Liberale si costituisce, in quanto moderno partito politico, solo l’8 ottobre 1922, appena venti giorni prima della Marcia su Roma, che decreta la fine dell’epoca dell’Italia unitaria a guida liberale. Quelle lontane vicende, che proiettano ancora la loro ombra sul presente, sono l’esito di una crisi che, nel primo dopoguerra, vede l’Europa alle prese con i sommovimenti tellurici causati dalla Grande guerra e dalla Rivoluzione d’ottobre. Esattamente cent’anni fa il fascismo – la ‘creatura’ di Benito Mussolini – si insedia al governo, rimanendovi per più di un ventennio e lasciando tracce durature nel corpo della società italiana. Ascende allora al potere, per la prima volta in Europa occidentale, un inedito «partito-milizia» di estrema destra, che si caratterizza per un’identità costruita su una serie di negazioni: dall’antiparlamentarismo all’antisocialismo e all’anticomunismo. «Movimento anti-tutto», che rappresenta la più compiuta estrinsecazione dell’antipolitica, il fascismo si presenta – al suo esordio – come movimento antiideologico e, in quanto tale, proclama il primato dell’azione, in nome anche del ripudio della democrazia come sistema di composizione permanente dei conflitti.
Artefice della «militarizzazione della politica», il fascismo fa dell’uso generalizzato della violenza il suo tratto distintivo. Amalgama riuscito di mentalità piccolo-borghese, populismo demagogico e interessi capitalistici, non solo fornisce ai ceti dominanti la truppa d’assalto contro le organizzazioni proletarie e le istituzioni rappresentative, ma soprattutto quel partito di massa che essi non avevano mai avuto e tanto più necessario in una fase storica in cui l’accendersi delle tensioni sociali e l’affermazione dei partiti popolari avevano reso ai loro occhi del tutto inaffidabili gli strumenti di mediazione adoperati dal ceto dirigente liberale.
L’originalità del fascismo, che abbinerà la repressione del «nemico interno» con l’espansionismo verso l’esterno, sta nell’essere entrato in sintonia con uno degli aspetti caratterizzanti l’intero cammino del Novecento, la massificazione della società; nell’aver dato vita ad un regime reazionario basato sul rapporto diretto capo-masse. Non a caso il fascismo è figlio dell’età iniziata con la Grande guerra, contraddistinta dalle dimensioni di massa assunte dallo scontro politico e sociale.
Dietro al duce, il condottiero carismatico circondato da un alone mistico-religioso, gran parte della piccola borghesia si sente protagonista della storia. Si illude, indossando la camicia nera, di realizzare la sua rivoluzione. Priva di una propria organizzazione sindacale e politica, si mette alla testa di un movimento per tutelare la sua condizione sociale, insidiata dalla crisi economica postbellica e dall’avanzata del proletariato. Le sue posizioni ben presto combaciano con l’obiettivo di tacitare l’antagonista di classe, a cui mirano il capitalismo agrario della Val Padana e gli imprenditori maggiormente colpiti dalle difficoltà della macchina produttiva.
All’inizio della sua avventura politica il movimento fondato a Milano, il 23 marzo 1919, da Benito Mussolini raccoglie, sulla base di un programma che mescola l’ultranazionalismo con rivendicazioni avanzate, ex-combattenti, futuristi, transfughi del socialismo, anarco-sindacalisti. È espressione delle inquietudini e aspirazioni di taluni strati della piccola borghesia urbana, che sui campi di battaglia e nel fango delle trincee hanno interiorizzato la forza dirompente dell’uso incondizionato della violenza.
Ne danno prova immediatamente con la devastazione dell’«Avanti» il 15 aprile 1919, provocando il ferimento di 39 persone e la morte di un soldato e tre socialisti. Un cruento episodio prontamente rivendicato dal tribuno di Predappio quale «primo atto della guerra civile». Il fascismo rimane una formazione politica ininfluente sino a quando – con l’assalto a Palazzo d’Accursio, in occasione dell’insediamento della giunta comunale socialista di Bologna (21 novembre 1920) – non mette le sue energie al servizio della reazione. Diviene, a cavallo tra il `20 e il `21, il braccio armato dei proprietari terrieri della Val Padana. In questa fase il fascismo è essenzialmente squadrismo, «illegalismo autorizzato» (Gaetano Salvemini).
Comandate dai cosiddetti ras, tra cui Italo Balbo, Leandro Arpinati, Roberto Farinacci, le spedizioni delle camicie nere prendono di mira sedi sindacali e di partito, circoli del dopolavoro e cooperative. Spostandosi da una località all’altra a bordo di camion, munite di manganelli e olio di ricino, di fucili e rivoltelle, ma talvolta anche di mitragliatrici e bombe a mano, terrorizzano, umiliano, bastonano, feriscono e uccidono, spesso con la connivenza di esercito, polizia e magistratura, migliaia di militanti e dirigenti della sinistra sindacale e politica, nonché delle leghe bianche (circa 4.000 i morti). Insanguinano la campagna elettorale per le votazioni del 15 maggio 1921 (170 vittime e decine di feriti), in virtù delle quali entrano alla Camera 35 fascisti, tra cui gli organizzatori e i responsabili di eccidi e rappresaglie. Si tratta di «una svolta politica e di civiltà senza più ritorno», di una data storicamente rilevante, ancor prima della fatidica Marcia su Roma (Fabio Fabbri).
Le “squadracce” sono composte, in gran parte, da figli di ex mezzadri e di modesti fittavoli, divenuti proprio in quegli anni, grazie anche all’inflazione che azzera i debiti, piccoli proprietari e perciò decisamente ostili alla «socializzazione della terra» propugnata dalle leghe rosse. Nelle zone rurali lo squadrismo trova adepti e sostenitori nel ceto medio dei borghi e dei campi, tra i contadini arricchiti, gli artigiani un po’ più agiati, i bottegai e i professionisti di provincia. Il fascismo agrario, incarnazione del partito della guerra civile, è sì il più strutturato, ma non avrebbe potuto chiudere la partita a suo favore, se Mussolini non avesse stabilito un «compromesso autoritario» con gli altri centri di potere, che lo disarcioneranno più di vent’anni dopo, nel 1943, per salvare il salvabile dall’imminente catastrofe bellica. Tra il `21 e il ´22 il duce è abilissimo nel rassicurare Vaticano e Corona e, una volta a capo del governo, nell’esaudire le richieste più importanti per la borghesia industriale: l’abolizione della nominatività dei titoli e della progressività dell’imposta di successione e la messa in mora definitiva di ogni intenzione di tassare parte dei sovrapprofitti di guerra.
Se lo squadrismo prende corpo nei punti alti dello sviluppo capitalistico italiano, esso è pressoché assente nelle aree arretrate del Mezzogiorno, dove il fascismo penetra grazie al trasformismo del notabilato locale che, cambiando casacca, riesce a mantenere intatto il proprio dominio sul resto della società. Tuttavia, la Campania e la Puglia costituiscono un’eccezione. Nella prima, specialmente nel Napoletano, dove l’industria è più diffusa e il movimento operaio è più robusto, le spedizioni punitive degli squadristi si fanno, nel 1921, meno sporadiche e più massicce e sistematiche. Si pensi innanzitutto ai «fatti di piazza Spartaco» del gennaio di quell’anno a Castellammare di Stabia, che lasciano sul terreno molti feriti, 6 morti e portano allo scioglimento dell’amministrazione socialista, o al micidiale colpo inferto all’altro caposaldo rosso della provincia, Torre Annunziata, che viene piegato da un manipolo fascista guidato da alcuni squadristi, tra cui Aurelio Padovani. Numero uno del fascismo partenopeo, ex capitano, repubblicano, massone, con un folto seguito personale, Padovani entrerà in contrasto con i vertici del Partito Nazionale Fascista (Pnf), da cui sarà espulso nel 1923 e morirà, trentasettenne, nel 1926 in un incidente a lungo rimasto oscuro. Nelle zone rurali della Campania, invece, le vecchie classi dirigenti trovano la loro sponda politica nei nazionalisti capeggiati dall’on. Paolo Greco.
In Puglia, terra di braccianti e di aziende capitalistiche agrarie, i conflitti sociali e politici percorrono la regione da un capo all’altro. Le prime squadre assoldate dagli agrari sono formate da mazzieri, mercenari armati di mazze da caprai. Poi le camicie nere si riconoscono in Giuseppe Caradonna. Ex capitano anche lui, sa «mettere in linea» una mobilissima cavalleria per terrorizzare con le sue efferate scorribande i salariati agricoli e i contadini pugliesi. Durissima la contrapposizione con Giuseppe Di Vittorio, il giovane leader dei “cafoni” di quelle contrade, bagnate dal sangue dello stillicidio di ferimenti e assassini avvenuti con la complicità o sotto lo sguardo compiaciuto delle forze dell’ordine. L’ultima impresa della cavalleria di Caradonna è l’occupazione di Foggia il 29 ottobre 1922. Pure in Calabria, dove i contadini hanno preso una certa coscienza dei propri diritti per impulso delle leghe bianche (con il sacerdote Carlo De Cardona) e dei movimenti di sinistra (con Pietro Mancini e Fausto Gullo), si verificano numerosi episodi di sangue.
Come ha narrato Mario La Cava, in un appassionante, quanto dimenticato romanzo storico del 1974, a Casignana, in provincia di Reggio Calabria, all’incirca un mese prima della Marcia su Roma carabinieri e fascisti commettono un eccidio ai danni dei contadini, rei di aver occupato – sull’onda dell’eco della Rivoluzione d’ottobre – le terre del maggiorente locale, don Luigi Nicota.
«I fatti di Casignana» accadono nell’anno dell’intensificarsi delle violenze fasciste, del fallimento dello «sciopero generale legalitario» (1° agosto), la «Caporetto del socialismo», emblema dell’indebolimento complessivo della sinistra, afflitta da insanabili fratture, che si traducono in laceranti divisioni e scissioni, mentre il mondo liberale coltiva ancora la speranza di poter «costituzionalizzare» un movimento che è servito a sventare il pericolo rosso.
È in questo clima che si arriva alla Marcia su Roma, preceduta di qualche giorno dall’adunata a Napoli di migliaia di camicie nere. L’esercito privato dei manipoli fascisti confluirà il 28 ottobre 1922 sulla Capitale, per dare poi una severa lezione a chi aveva provato a resistere (13 morti tra gli operai del quartiere di San Lorenzo). Il re non firmerà lo stato d’assedio e Mussolini – a cose fatte – può giungere in vagone – letto da Milano, dove aveva ricevuto l’investitura degli ambienti industriali. Il 31 ottobre, a conclusione di rapidissime trattative, il capo del fascismo forma il suo primo governo. Ne fanno parte 5 fascisti – Mussolini tiene per sé la presidenza, i ministeri dell’Interno e degli Esteri – 3 indipendenti, un nazionalista, 2 demosociali, un liberale di destra, un demoliberale e 2 popolari. È la tappa iniziale di un percorso più che ventennale, con il quale gli italiani – o meglio una parte di essi – non si sono misurati fino in fondo. Hanno preferito far propria l’immagine edulcorata, fuorviante, autoassolutoria della loro «autobiografia», veicolata dall’anti-antifascismo, che ha trovato negli ultimi decenni una potente cassa di risonanza nell’universo mass-mediatico.
Il ricorrente eppur ineludibile discorso sul consenso goduto dal fascismo ha finito per mettere quantomeno in secondo piano i misfatti di un regime che ha soppresso le libertà civili, politiche, sociali e si è macchiato di gravi crimini in patria e fuori dei confini nazionali, con la riconquista brutale della Libia, con l’uso dei gas in Etiopia e l’occupazione dei Balcani. È ora più che mai necessario fare i conti, senza alcuna reticenza, con gli stereotipi e le immagini di un passato che continua a riverberarsi sul nostro presente.
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