Il tribunale di Vibo Valentia
2 minuti per la letturaIL verbale è stato acquisito dalle difese nella passata udienza del processo d’Appello “Black Money”. Le parole sono sempre quelle dell’ultimo pentito, in ordine di tempo, non certo d’importanza, Raffaele Moscato, ex esponente di punta del “Locale” di Piscopio.
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SULL’OPERAZIONE BLACK MONEY
Quattro pagine di interrogatorio reso al pubblico ministero della Dda Camillo Falvo nelle quali si fa riferimento ad Antonio Maccarone – genero del boss Pantaleone Mancuso alias “Vetrinetta” a capo del ramo imprenditoriale del clan – assolto in primo grado e di Nunzio Manuel Callà – ritenuto autista di un altro boss da novanta, omonimo del primo, ma con un diverso soprannome: “Scarpuni” – con analogo destino processuale davanti al gup Reillo.
In questa integrazione il collaboratore di giustizia parla dei soldi che proprio Luni Mancuso dovette lasciare a Colino Fusca, il quale avrebbe avuto il controllo del territorio di San Costantino Calabro, per un lavoro.
Racconta Moscato: «So che Maccarone è un imprenditore e che nelle sue attività è socio anche il suocero e questo lo so perché quando il primo doveva prendere i lavori ci andava sempre il secondo». A questo punto il narrato del pentito si sposta su un episodio avvenuto a San Costantino Calabro, quando i due presero un lavoro «senza avvisare il responsabile del paese, ovvero Colino Fusca, subendo il danneggiamento dei mezzi; non ricordo l’epoca ma questa circostanza mi fu riferita dallo stesso Fusca l’azione avvenne per reazione al gesto di supremazia che aveva voluto compiere Mancuso, cioè andare nel paese senza chiedere il permesso ad alcuno». La reazione del boss, tuttavia, secondo Moscato, non si fece attendere: «Il giorno dopo Pantaleone “Vetrinetta” scese a San Costantino e parlò con lo stesso Fusca dicendogli che un “malandrino” non paga la mazzetta ma lascia un fiore, al ché il suo interlocutore rispose così: “Chiamalo come vuoi, fiore o mazzetta, basta che lasci i soldi”; dopo di che, non essendo quella, una zona di sua competenza, ha dovuto pagare».
E questa circostanza il collaboratore ha affermato di averla appresa nel 2012 dallo stesso Fusca, il quale era il cognato di Carmine Galati «che era un sanguinario», nel carcere di Vibo in quanto «frenquentavamo lo stesso corso scolastico ed eravamo compagni di banco».
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