X
<
>

Il boss Mannolo esibisce un Crocifisso in aula rendendo dichiarazioni spontanee

Share
6 minuti per la lettura

CUTRO (KR) – «La guardiania per me è come il matrimonio, è un male necessario che va capito. Chi lo capisce è bravo e ci azzecca, chi non lo capisce resta impicciato».

Quando parlano e straparlano, pensando di sostituirsi ai propri avvocati, i boss loquaci si incastrano da soli. Forse è successo anche ad Alfonso Mannolo, l’anziano capobastone – o presunto tale – della famiglia di ‘ndrangheta stanziata nella frazione San Leonardo di Cutro ma con proiezioni nel Catanzarese, in Umbria e in Veneto. La sua teoria sulla guardiania come “male necessario” illustrata nel corso di lunghissime dichiarazioni – insieme a molti altri elementi di accusa – gli è costata la condanna a 30 anni di carcere disposta, nel maggio scorso, dal Tribunale penale di Crotone, nei confronti del logorroico imputato.

Lo si ricava dalle motivazioni della sentenza scaturita dall’inchiesta della Dda di Catanzaro e della Guardia di finanza di Crotone che nel maggio 2019 condussero l’operazione “Malapianta”, depositate nei giorni scorsi dal Collegio giudicante presieduto da Massimo Forciniti.

«Il granitico e univoco quadro probatorio acquisito non è stato scalfito dalle spontanee dichiarazioni rese in dibattimento da Alfonso Mannolo il quale, pur nell’intento di ridimensionare la gravità della propria posizione, ha parzialmente confessato alcuni reati fine».

Quella sconfinata deposizione durante la quale Mannolo, collegato in videoconferenza dal carcere in cui è sottoposto al regime duro, a un certo punto brandiva un’immagine del Crocifisso sostenendo che lui Cristo non l’ha mai tradito, suona come una sia pure parziale ammissione al vaglio dei giudici che inflissero quasi 200 anni di pene nel filone del rito ordinario, in aggiunta ai tre secoli e mezzo disposti nel troncone del rito abbreviato (che lunedì approda in Appello). Oltre alle risultanze istruttorie, ci sono le dichiarazioni dei numerosi pentiti che indicano Mannolo al vertice della consorteria per cui i giudici ritengono provati tutti i reati contestati a suo carico.

«Secondo quanto emerso, era dotato di autorità all’interno del consorzio criminale, svolgeva funzioni di supremazia gerarchica e regolamentava la vita del sodalizio anche esercitando funzioni di controllo e reprimenda sui comportamenti degli associati». Ma, soprattutto, la sentenza stabilisce, per la prima volta, che «la cosca Mannolo, inserita nel “locale” di ‘ndrangheta San Leonardo di Cutro, che a sua volta s’inquadra «nell’alveo di una più ampia articolazione territoriale, denominata mandamento o provincia, retta dal boss di Cutro Nicolino Grande Aracri e riconosciuta dal crimine di Polsi», presenta «tutti i caratteri dell’associazione mafiosa enucleati dalla giurisprudenza: la compresenza di più partecipanti agli illeciti; l’esistenza stabile e permanente di una struttura idonea a resistere nel tempo e connotata da una distribuzione gerarchica e organizzata di ruoli e compiti nonché dall’utilizzo di una metodologia mafiosa».

I giudici rammentano tra gli esempi di carica intimidatoria «fenomeni di omertà» nelle deposizioni di un direttore del villaggio turistico Serenè, una delle strutture ricettive su cui il clan esercitava un giogo ultraventennale, e di una vittima di usura. E rilevano un «sistematico e diffuso controllo del territorio attraverso il radicamento nel tessuto economico e imprenditoriale», con una tendenza a espandersi attraverso le “propaggini” in Veneto e Umbria. Oltre a riconoscere il traffico di droga tra Calabria e Umbria il cui organizzatore era Antonio Ribecco, poi morto di Covid in carcere, il quale si approvvigionava comunque dai Mannolo, nonché il giro di usura e l’organizzazione di frodi ai danni del sistema bancario in Veneto, la sentenza si sofferma ampiamente sull’asservimento dei villaggi turistici da inserire in «un più ampio progetto delinquenziale strategicamente orchestrato a più livelli tra le famiglie ‘ndranghetiste operanti sul territorio».

«Ruolo centrale» dal punto di vista probatorio assumono le dichiarazioni del testimone di giustizia Giovanni Notarianni, l’imprenditore lametino titolare di Porto Kaleo, che ha raccontato le traversie della struttura, dall’incendio del bar sulla spiaggia nel 2003 a quello del corpo dell’hotel nel 2005 a un nuovo rogo che distruggeva completamente il bar nel 2016, ma anche le estorsioni che avvenivano mediante pagamenti periodici e condizionamento dei servizi essenziali, delle assunzioni, delle forniture. Subito dopo l’aggiudicazione all’asta peraltro osteggiata dal clan, Mannolo, racconta Notarianni, si presenta da lui «perché lì funzionava così… ci siamo resi conto subito che era un’estorsione pazzesca».

Il riferimento era alla pretesa di 250mila euro per poter lavorare in pace, somma corrisposta personalmente da Notarianni in più soluzioni. E poi c’era il canone fisso: «non cera bisogno di spiegare, era una prassi consolidata, un’estorsione mensile sulla guardiania». «Vivevo una situazione di totale angoscia, non era possibile fare impresa in un territorio dove si era condizionati dalla A alla Z», ha detto il teste raccontando il suo stato d’animo in seguito ai danneggiamenti. Addirittura dopo gli incendi, fingendo empatia, il boss e il fratello Mario pretesero un aumento del canone di 1000 euro per i “servizi investigativi” svolti per appurare chi avesse appiccato il fuoco, richiesta a cui Notarianni non cedette. Mentre dopo il terzo incendio, comunicandogli che era in pericolo di vita perché “persone di Cutro” volevano ucciderlo, gli chiesero altri 50mila euro e stavolta acconsentì.

«Quando parlava di Cutro, dei delinquenti, dei criminali, è stato molto abile, è come se ci fosse una distinzione, lui era il mafioso buono diciamo, anche se mi faceva questa azione devastante». Ma, «morale della favola, senza lui non si poteva andare avanti», e anche per il passaggio dei terreni da agricoli edificatori fu pagata una tangente, stavolta di 100mila euro. Le cose cambiarono un po’ soltanto dopo che la madre del teste, Carla Rettura, denunciò il boss Grande Aracri che, appena scarcerato, era andato a chiedere un milione e mezzo di euro a suo dire investiti nel villaggio e consegnati all’ex compagno di lei, Pasquale Barberio.

Sicché gli uomini del clan passarono dall’originario «atteggiamento strafottente e spregiudicato» per cui non gli si poteva rimproverare nulla a «un comportamento maggiormente rispettoso e disponibile», se perfino Remo Mannolo, figlio del boss, iniziava a svolgere le proprie mansioni con impegno. I giudici parlano di «dramma interiore» vissuto da Notarianni e anche di «comprensibile titubanza» con riferimento al fatto di non aver rivelato tutto subito agli inquirenti, anche in occasione della denuncia contro Grande Aracri, per il timore di ritorsioni a lui e alla sua famiglia. Tanto più che di “sentimenti di paura” ha parlato anche sua madre in aula, rievocando i danneggiamenti avvenuti nella struttura. I giudici definiscono di «adamantino nitore» la testimonianza di Notarianni.

«Se alcune richieste estorsive – è detto in sentenza – in particolare quella di 250mila euro assolutamente priva di titolo in quanto fondata su pregressi accordi con terzi e quella basata sulla prospettazione di un imminente pericolo di vita erano poste in essere dal boss Alfonso Mannolo in maniera diretta e sfrontata, quelle a carenza periodica, ovvero relative alla guardiania e al “benessere” della famiglia, venivano imposte dai partecipi alla cosca Remo Mannolo e Francesco Falcone senza neppure bisogno di profferire minacce esplicite, ma attraverso mere sollecitazioni. Tali inviti non potevano essere declinati dal destinatario in quanto costituivano il riverbero di reiterate intimidazioni».

Al riguardo, Notarianni «ha fornito un’icastica rappresentazione del clima di terrore vissuto nell’arco di 18 anni». I giudici parlano di «impotente soccombenza» del titolare di un villaggio «di fatto controllato e gestito da cosche ‘ndranghetiste». Perché «Ribellarsi a tale giogo avrebbe significato scontrarsi da solo con un male antico e profondamente radicato nel territorio esponendo sé e i propri cari a conseguenze razionalmente inaccettabili». Alla fine, però, la ribellione c’è stata. E dopo Notarianni altri imprenditori turistici della zona hanno parlato, contribuendo a scardinare un sistema. E sono fioccati nuovi arresti.

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE