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GIRALDO Cordova Cardin non si presentò la sera del 25 luglio 1953 all’arena Rafael Trejo dell’Avana, a Cuba, dove avrebbe dovuto combattere contro Julito Rojo nel torneo pugilistico chiamato “Guantes de oro”. Giraldo aveva 22 anni, aveva vinto tutti i cinque incontri disputati fin lì, era il favorito, forse il pugile più atteso della serata, ma non si presentò. Aveva altro da fare. Fu dichiarato sconfitto, e quella fu l’unica sconfitta nella sua carriera nella boxe.

Non combatté più, giacché l’ultimo suo combattimento, nel quale soccombette per sempre, lo effettuò quella notte stessa nell’assalto alla Caserma Moncada. Giraldo era un bravo ragazzo: stava con Fidel e con Che Guevara. Da bambino era poverissimo: aveva smesso di studiare presto, ma non aveva smesso di leggere. Aveva quasi imparato a memoria tutti gli scritti di Josè Marti (il nome intero José Julian Marti Perez), l’eroe dell’indipendenza di Cuba che era anche poeta. Alcuni suoi versi della raccolta “Versos sencillos” hanno costituito la base della popolarissima “Guantamanera”, una delle melodie caraibiche più conosciute ed eseguite: “Sono un uomo sincero/ Di dove cresce la palma/ E prima di morire voglio/ Far uscire i versi dalla mia anima./ Il mio verso è di un verde chiaro/ E di un color rosso acceso,/ Il mio verso è un cervo ferito,/ Che sul monte cerca riparo./ Coltivo la rosa bianca/ In giugno come in gennaio/ Per l’amico sincero/ Che mi dà la sua mano franca./ E per il crudele che mi strappa/ Il cuore con cui vivo/ Non coltivo né cardi né ortiche:/ Coltivo la rosa bianca./ Io conosco un dispiacere profondo/ Tra le pene senza nome:/ La schiavitù degli uomini/ E‘ la grande pena del mondo./ Con i poveri della terra/ Voglio dividere la mia sorte,/ Il ruscello della montagna/ Mi piace più del mare“, recita una bella traduzione.

A 12 anni, povero in canna, Giraldo già lavorava: alla raffineria di petrolio dell’Avana, la Fontecha; poi iniziò a dare una mano al commercio ambulante di suo padre Lazaro. Ma non abbandonò né la danza, né la musica, né la lettura, né la boxe, le passioni cubane. Non abbandonò nemmeno lo spirito di giustizia (qualcuno dirà di ribellione) che lo spinse un paio di volte ad affrontare a muso duro e pugni chiusi i poliziotti cubani quando gli sembrava che la facessero troppo grossa. Come quella volta che ne atterrò uno perché stava maltrattando un ragazzo chissà perché, o quell’altra che affrontò per la strada. L’agente in questione, in una serata al pub, era andato al bagno, lo aveva trovato occupato e, mezzo brillo e ancor di più arrogante, aveva cominciato a dare in escandescenze, era uscito dal locale e, in mezzo alla strada e tra i passanti, aveva tirato fuori il membro e cominciato a pisciare. Gilardo era andato a dirgli la sua e quello aveva tirato fuori anche la pistola; Gilardo non s’era fermato, la folla aveva cominciato un mormorio sinistro per il poliziotto che rinfoderò pistola e resto e batté in ritirata.

La svolta decisiva nella vita del pugile avvenne il 10 marzo 1952, il giorno in cui Fulgencio Batista, che da sergente si era promosso immediatamente generale in un riuscito golpe nel 1944, ne organizzò un altro, con l’appoggio della CIA, e riprese il potere all’Avana, liquidando in un amen il governo costituzionale di Carlos Prio Socarràs. Questo governo “convocò“ i possibili difensori della democrazia all’Università dell’Avana, dove, promise, “troverete le armi“. Tra gli studenti ben disposti s’era intrufolato anche Gilardo, ma le armi non arrivarono mai. Però la miccia del rivoluzionario era accesa.

Il pugile iniziò a frequentare regolarmente la Juventud Ortodoxa di via del Prado e divenne uno dei fedeli di Fidel. La cellula di appartenenza era quella di Fernando Chenard. Gilardo era tra i più assidui nell’addestramento alla guerriglia, che fosse dentro l’Università, o in una cava di Camito, o in una fattoria di Artemisa. Ballava, cantava, leggeva, tirava di boxe e s’addestrava. La mattina del 25 luglio 1953 partì per Santiago di Cuba, disse al padre Lazaro: “Vado a cercarmi un lavoro, così staremo meglio; farò in tempo a tornare per il torneo“. Il vecchio sorrise: non sapeva. Gilardo arrivò a destinazione, non cercò il lavoro ma i compagni. Domani assaliremo la Caserma Moncada, gli dissero. Lo fecero. Erano le 5,15 del 26 luglio, il match di boxe era già perduto, quando il pugile non più imbattuto, con addosso una divisa dell‘esercito cubano per confondere il nemico da assalire, salì su un mezzo di una colonna di rivoluzionari che si diressero alla Caserma Moncada. I soldati in caserma erano 400 e avevano mitragliatrici e fucili ipermoderni; i guerriglieri non arrivavano a 100 e l’armamento era modesto ed antiquato, tranne che nel cuore. Persero gli uomini di Fidel, vinsero quelli di Batista, per quella volta. Caddero, fra uccisi in azione e catturati e successivamente torturati e uccisi, in 61 possibili “barbudos“ del domani vittorioso.

Gilardo Cordova Cardin era tra i catturati, torturati, uccisi. Non ebbe i guanti d’oro, ma l’aureola del martire. Fidel Castro fu “solo“ catturato. Al pugile hanno dedicato una poesia di anonimo: “Giraldo Córdova/ candidato al titolo/ per le sue rapide mani/ per il suo colpo che poteva/ lasciare una leggenda d’ossa rotte,/ per l’ansioso danzare/ delle sue gambe, perfetto/ il gioco sciolto delle sue spalle/ solo subì una sconfitta/ per non presentazione/ per il resto il suo braccio tira sempre/ un jab definitivo al tronco…/ Nel suo ultimo incontro/ il popolo rimase ad aspettare/ e incitò e tifò con gioia/ per quella mancanza di rispetto/ mentre Giraldo lanciava/ montanti al viso/ della morte/ nel suo corpo a corpo/ alla caserma Moncada/ uomini di un unico ideale:/ la Libertà dei propri pari./ Non patirono/ più quella sete e a essa/ consacrarono la propria vita./ Furono cultori di un fiore,/ da cui uscì/ una nuova stella, la stella/ solitaria”.


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