Pablo Picasso, “Due donne che corrono sulla spiaggia” (1922). Museo Picasso, Parigi
2 minuti per la letturaLa “moda della vacanza”, l’hanno definita Alessandro Martini e Maurizio Francesconi in un volume uscito lo scorso anno per Einaudi sulle tracce di reali, politici, scrittori e musicisti nei luoghi simbolo del divertimento élitario tra 1860 e 1939.
La vacanza come obbligo sociale, diventata, nel Novecento, da mito aristocratico un fenomeno di massa, alla portata di tutti anche grazie al last minute e alle offerte all inclusive. Un termine, peraltro, che designa realtà molto diverse e finanche opposte, se rinvia, contemporaneamente, al “vuoto”, alla vacatio, all’otium, di chi ricerca una pausa dalle incombenze quotidiane, ma pure al “pieno” di chi, invece, si abbandona a un surplus di attività vacanziere che perfino sovrasta il cumulo di impegni della vita feriale.
E però la vacanza e l’estate come suo luogo di elezione non generano soltanto attesa e desiderio, bensì anche rifiuto, rinuncia, ripulsa. “Odio l’estate”, cantava Bruno Martino nel 1960 in un brano che sarebbe stato ripreso, tra gli altri, da Michel Petrucciani e da Chet Baker: l’estate come momento del dolore, con il suo sole e con gli “splendidi tramonti”, l’estate che fa, addirittura, invocare l’inverno, in cui “cadranno mille petali di rose / la neve coprirà tutte le cose” e il cuore troverà la pace. Né bastano per riscattare questo mito della modernità le invenzioni snob come le “vacanze intelligenti” che ci afflissero dalle pagine dei giornali, tra borghi sperduti da scoprire e mostre d’arte invariabilmente di nicchia.
Ci voleva il sarcasmo feroce del Manganelli di Improvvisi per macchina da scrivere (Adelphi, 2003) per metterci una pietra sopra, fino a seppellire il concetto stesso di vacanza: “Detesto il concetto di vacanza intelligente, che recentemente ha avuto gran successo; mi pare presupponga che l’anno sia tutto idiota, eccetto quei quaranta giorni […]. Sappiamo che le vacanze sono per lo più intellettualmente moleste; ché non sarebbe gran danno, non fosse che sono chiassose, afose, ciarliere, euforiche, prodighe […]. Chi si voglia tenere sul sicuro si chiuderà in casa, meglio se in una unica stanza, con scuri abbassati, catenaccio alle porte, telefono staccato, camminar solo di pantofole, strascicato e morbido, parlare seco o con incarogniti complici a voce bassissima, meglio se per allusioni e strizzar d’occhi”.
Salvarsi dalle vacanze, questo suggerisce Manganelli. Le vacanze come un incubo da cui fuggire o, in taluni casi, come premessa a un diverso incubo, che è quel che accade in uno straordinario racconto di Julio Cortázar contenuto in Tutti i fuochi il fuoco, con i parigini prigionieri un pomeriggio di domenica d’agosto, si suppone dopo un week-end vacanziero, dell’autostrada del sud in direzione della loro città a cui non si arriva. Metafora di un’umanità che, a furia di muoversi freneticamente per turismo, rimane ferma dentro una trappola.
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