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CATANZARO – La Corte d’appello di Catanzaro ha confermato la confisca di una parte consistente dei beni riconducibili al boss Giovanni Mancuso, 81 anni, considerato dagli investigatori uno dei massimi esponenti dell’omonimo sodalizio di ’ndrangheta di Limbadi-Nicotera, tra quasi 100 appezzamenti di terreno, circa 30 fabbricati, abitazioni ed altro, sparsi in varie località del Vibonese e a Milano, per un valore di 10 milioni di euro.
Gli stessi giudici hanno però annullato il decreto pronunciato dal Tribunale di Catanzaro (sezione Misure di prevenzione) emesso nel febbraio 2021 relativamente al sequestro patrimoniale fatto a carico di Pasquale e Gaetano Molino, Rosaria Mancuso, Francesco Mercuri, Cesare Limardo e Silvana Mancuso. Ai beni, per un valore che si aggira sui 20 milioni di euro, erano stati apposti i sigilli ad ottobre 2019 nel procedimento giudiziario “Terra Nostra” eseguito dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro nei confronti del boss Giovanni Mancuso e dei suoi familiari quali terzi interessati. In primo grado i beni erano stati confiscati parzialmente, ed era stato restituito solo l’impianto di carburanti Lcn petroli sito lungo la strada provinciale Vibo-Tropea, nel paese di Mesiano, frazione del comune di Filandari.
Adesso, tutti i beni tornano ai precedenti titolari in accoglimento dell’istanza presentata dagli avvocati Daniela Garisto e del collega Antonio Maccarone per conto dei rispettivi clienti.
Tornando a Giovanni Mancuso, sempre la Corte ha riconosciuto la mancanza di riconducibilità degli acquisti in capo a quest’ultimo, rappresentando come essi siano avvenuti con proventi leciti derivanti dall’attività lavorativa. Gli sono pertanto stati restituiti un appartamento a Milano, una villa a Limbadi, decine di altri terreni e autovetture. Stessa decisione presa nei confronti di Marco Mancuso, 50 anni, figlio del boss, in accoglimento della richiesta avanzata dall’avvocato Francesco Schimio.
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