Luca Zaia e Massimiliano Fedriga
4 minuti per la letturaQualcuno, come la presidente di Confindustria Vicenza, Laura Dalla Vecchia, lo tira per la giacchetta: “Luca Zaia prenda le distanze da quanto avvenuto in Parlamento, la politica locale deve essere vicina agli interessi del territorio, mentre si sono fatti solo gli interessi dei partiti di Roma, e forse anche quelli personali”.
Qualcun altro, come Luca De Carlo, senatore e coordinatore regionale veneto di Fratelli d’Italia, lo addita – pro domo sua – come esempio da imitare: “Il centro destra dovrà presentarsi compatto alle prossime elezioni. Noi siamo sempre rimasti fermi sulla nostra posizione e siamo contenti che ora i nostri alleati siano tornati a casa come un figliol prodigo. Lo schema che si può applicare a Roma è quello che c’è a Venezia, solo a parti invertite, con Giorgia Meloni nei panni del leader esattamente come accade a Luca Zaia a Venezia”.
L’interessato, ovvero il governatore leghista, preferisce fare lo gnorri, anche se prima o poi dovrà dire come la pensa, visto che la linea di Matteo Salvini sulla crisi di governo ha sconfessato il suo tentativo (ma anche quello di Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli) di tenere la Lega su posizioni governative, anche in ossequio alle sollecitazioni provenienti dal mondo imprenditoriale, che a Nordest sta reagendo in modo uniforme contro la decisione di far finire in modo traumatico la legislatura.
Zaia preferisce guardare altrove. Non una parola di commento sul suo sito Facebook né alcun comunicato stampa. Per i suoi numerosi followers cita l’anniversario della costruzione della diga di Assuan, ricorda lo screening gratuito per l’epatite C, esalta la vittoria di due ballerini veneti al campionato nazionale.
Poi annuncia sciovinisticamente che sono 148 le stazioni di servizio Eni i cui terminali parlano in dialetto veneto, esalta gli interventi della protezione civile sul fronte degli incendi. Intanto il ministro Renato Brunetta, di Forza Italia, veneziano di nascita, annuncia l’uscita da un partito che si sarebbe appiattito sulle posizioni di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, tradendo la propria tradizione liberale: “Io non cambio, è Forza Italia che è cambiata”.
La Lega però ribolle, anche se c’è da giurare che in periodo elettorale soltanto quelli che hanno la vocazione al suicidio politico usciranno allo scoperto contestando il segretario federale. “Faremo quello che serve all’Italia” aveva ripetuto Salvini. Peccato che il Veneto la pensi in modo diverso, preoccupato del periodo di instabilità che adesso si apre. Non a caso Zaia aveva dichiarato che sarebbe stato il momento meno indicato per far cadere l’esecutivo e aveva fatto pressing sul segretario. Non è stato ascoltato.
“Il governismo a qualsiasi costo non garantisce risultati né per il Veneto, né per l’autonomia” ha sussurrato il commissario regionale, Alberto Stefani, un fedelissimo di Salvini. “Serve un esecutivo che porti il testimone del voto di oltre due milioni di veneti”.
Il deputato Massimo Bitonci, presidente della Lega: “Siamo stupiti dal discorso del presidente Draghi: nessun accenno a flat tax e pace fiscale nonostante 50 milioni di cartelle esattoriali già partite o in partenza che rappresentano un’emergenza nazionale”.
“Gli ambienti romani sono diversi da quelli che conosciamo noi, se hanno preso quelle decisioni si tratta di dinamiche che noi, in Veneto, non possiamo capire ed è giusto che siano i parlamentari a parlare” ha detto Alberto Villanova, capogruppo del Carroccio in Regione, con prudenza. “A Roma ci sono anche il nostro commissario veneto e molti esponenti politici, immagino abbiano valutato tutte le indicazioni arrivate dal nostro territorio, oltre agli elementi emersi poi in aula”.
“Avanti con Draghi. Soprattutto per quel che c’è in ballo, a partire dal Pnrr.
Quindi Salvini ascolti le esigenze del Veneto, dei territori, del tessuto imprenditoriale: tra guerra, rincaro energetico ed economia in ginocchio, ci mancava solo la crisi di governo” aveva dichiarato prima dell’ultimo dibattito Roberto Marcato, assessore regionale allo Sviluppo economico, che ambisce a fare il segretario reigonale ed è un fedelissimo di Zaia.
Inascoltato anche lui. Si è consolato distinguendo i ruoli: “Io e Zaia siamo amministratori più che politici, in quanto tali, la nostra priorità è dare voce alla terra che rappresentiamo”.
Sono parole che rimandano alla divisione ormai consolidata tra partito e potere regionale. Dopo il trionfo di Zaia nel 2020, la tensione con Salvini è stata palpabile, ma il leader veneto ha sempre cercato di non entrare in rotta di collisione.
E lo ha fatto, per l’appunto tenendo fermo il ruolo di amministratore, senza cercare invasioni di campo, almeno plateali. Salvini, al contrario, ha cercato di estendere il suo controllo sulle strutture di partito, anche per controllare i congressi a venire. Una guerra di posizione che adesso passa in secondo piano, viste le elezioni di autunno. Tutti sanno che, se dev’esserci, il regolamento dei conti avverrà dopo.
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