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Giuseppe Conte nello studio di Porta a porta. Sullo sfondo Mario Draghi

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Tutti devono decidere. Le condizioni poste dal premier sono chiare: si va avanti, si decide e si attua insieme l’agenda economica e sociale che oggi serve al Paese. Se si vuole fare solo campagna elettorale, alimentare il rischio politico che ha già fatto risalire lo spread che pagano tutti gli italiani, se si vuole bruciare l’indice di fiducia di giugno alle stelle delle imprese italiane che fa da contraltare alla caduta verticale di quello tedesco, questa pattumiera del peggiore populismo demagogico italiano si accomodi pure. Abbia, però, almeno l’onestà di prendersi pubblicamente le sue responsabilità e di dire ai propri elettori le ragioni che lo hanno spinto a indebolire ulteriormente i loro portafogli facendo salire i tassi e bloccando un circuito virtuoso in atto della economia a dispetto di ogni evidente, gravissima difficoltà internazionale. È il riflesso della tribalizzazione della politica, di un certo sindacalismo, di un diffuso corporativismo e di un certo modo di fare informazione. Tutto ciò che brucia sui mercati il valore dei fondamentali dell’economia italiana così faticosamente ricostituiti. Dovrebbe essere oggi l’opinione pubblica a costringere i partiti populisti/sovranisti a fare i conti una volta per tutte con se stessi. Questo può succedere solo con una rivolta del Paese che produce, che vuole tornare a fare grande ricerca, che vuole unire le due Italie con gli investimenti e il lavoro produttivo, non con le elemosine, ma purtroppo tutto ciò si scontra con un altro Paese dove sono davvero troppi quelli che hanno il loro feudo da proteggere che la stabilizzazione del Paese metterebbe in pericolo.

Siamo un Paese che si può permettere di fare a meno di 30 e passa miliardi tra decreto aiuti e nuova rata del Piano nazionale di ripresa e di resilienza? Siamo un Paese che può sopravvivere alla crisi di credibilità verticale che si determinerebbe con la caduta del governo Draghi che azzererebbe la fiducia ritrovata degli investitori internazionali e produrrebbe un danno extra a tutti i soggetti economici italiani che stanno facendo meglio di tutti i loro concorrenti europei? Siamo un Paese che si può permettere di interrompere un miracolo economico che sta producendo quasi 10 punti di Pil di crescita in un anno e mezzo dopo un ventennio segnato dallo zero virgola che è la sintesi algebrica di tutte quelle questioni italiane produttive e salariali che si è costretti oggi ad affrontare? Siamo un Paese che si può permettere di prendersi qualche mese di campagna elettorale in stile argentino, che ha l’inflazione al 60%, mentre c’è un’agenda Draghi, dal cuneo fiscale al salario minimo, per non parlare ancora prima del caro energia, che obbliga ad agire ora, ieri, non dopo domani? Siamo un Paese che può smettere di lottare per fare gli investimenti produttivi nel suo Mezzogiorno con i capitali europei del Pnrr   e quelli degli investitori privati internazionali e nazionali sulla logistica energetica, sull’industria del mare, sulle grandi reti di trasporto e digitale veloci, oltre che sul capitale umano, dagli istituti tecnici alle università?

Siamo, soprattutto, un Paese che nel pieno di una guerra lunga nel cuore dell’Europa e di un nuovo ordine mondiale può fare a meno della leadership internazionale di Draghi per avere un ruolo da protagonista nella partita della Ucraina che è quella del nuovo conflitto di civiltà tra autocrazia e democrazia? Siamo, soprattutto, un Paese affetto da pulsioni così violentemente suicide da decidere noi di fare a meno di chi viene considerato da tutti l’architetto politico della Nuova Europa che è quella della capacità di bilancio e di debito comuni che sono a loro volta l’ossigeno finanziario per i nostri investimenti e l’unica possibilità concreta perché si arrivi a una qualche forma di recovery energetico europeo?

La risposta a tutte queste domande è no, assolutamente no. Allora smettiamola con il teatrino politico a cui lo stesso Draghi in un simile contesto potrà sottrarsi solo fino a un certo punto. Smettiamola di giocare con il Paese. Tutti devono decidere. Le condizioni poste dal premier sono chiare: si va avanti, si decide e si attua insieme l’agenda   economica e sociale che oggi serve al Paese. 

Se si vuole fare solo campagna elettorale, alimentare il rischio politico che ha già fatto risalire lo spread che pagano tutti gli italiani, se si vuole bruciare l’indice di fiducia di giugno alle stelle delle imprese italiane che fa da contraltare alla caduta verticale di quello tedesco, questa pattumiera del peggiore populismo demagogico italiano si accomodi pure. Abbia, però, almeno l’onestà di prendersi pubblicamente le sue responsabilità e di dire ai propri elettori le ragioni che lo  hanno  spinto a indebolire ulteriormente i loro portafogli facendo salire i tassi e bloccando un circuito virtuoso in atto della economia a dispetto di ogni evidente, gravissima difficoltà internazionale che sono gli shock inflazionistici legati almeno in Europa in modo preminente dalla guerra di invasione di Putin nello stato sovrano libero dell’Ucraina.

Dovrebbe essere oggi l’opinione pubblica a costringere i partiti populisti/sovranisti a fare i conti con le loro contraddizioni. A fare i conti una volta per tutte con se stessi. Questo può succedere solo con una rivolta del Paese che produce, che vuole tornare a fare grande ricerca, che vuole unire le due Italie con gli investimenti e il lavoro produttivo, non con le elemosine, ma purtroppo tutto ciò si scontra con un Paese dove sono davvero troppi quelli che hanno il loro feudo da proteggere che la stabilizzazione del Paese metterebbe in pericolo. È il riflesso della tribalizzazione della politica, di un certo sindacalismo, di un diffuso corporativismo e di un certo modo di fare informazione. Tutto ciò che brucia sui mercati il valore dei fondamentali dell’economia italiana così faticosamente ricostituiti.

Oggi al Paese serve una seria politica di riequilibrio sociale con i costi che il riequilibrio comporta e che vuol dire tagliare i privilegi. Perché gli squilibri nascono dai troppi privilegi di chi ha troppi santi in Paradiso e che, come i tassisti e i balneari, di protettori in periodo elettorale ne trovano ancora di più. Poco importa   che a difenderli sono gli stessi che chiedono al governo Draghi il taglio del cuneo fiscale sacrosanto che questo governo ha già tagliato più di ogni altro, ma che tutti si guardano bene dal dirlo. Gli stessi che chiedono al governo Draghi di rinnovare i contratti, cosa sacrosanta, senza mai dire che è quello che ne ha rinnovati di più e che quello del commercio è fermo da nove anni. Siamo seri, se ne siamo capaci, per davvero. Almeno per una volta. Almeno quando si è alle prese con tre bestie globali che fanno paura come pandemia, guerra e inflazione.


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