Mario Draghi durante la conferenza stampa di oggi
6 minuti per la letturaNon per difendere se stesso, ma avendo il dovere di interpretare i fatti. Se tradiamo i fatti per quello che sono andiamo tutti a gambe all’aria e, quindi, non c’è più spazio per giocare con le parole, le letterine, i proclami, le uscite dall’aula, il doppio gioco di chi indossa di giorno l’abito del sindacalista e di sera la tuta del Melenchon italiano. Draghi ha giustamente più volte sottolineato che il governo non è stato con le mani in mano. Che più di trenta miliardi per attenuare il caro bolletta sui costi delle imprese e ridurre l’impatto sul potere di acquisto delle famiglie senza fare scostamenti di bilancio che ci esporrebbero ad altri rischi sui tassi, non sono proprio una bazzecola. Questo governo di unità nazionale governa, l’economia italiana va meglio delle altre economie europee e sta preservando più di tutti il potere d’acquisto delle famiglie e la fiducia dei produttori, ma il rischio inflazione con il suo carico di diseguaglianze è reale e, quindi, bisogna fare di più in modo strutturale e urgente. Su caro energia, cuneo fiscale e salario minimo.
Questa volta l’ultimatum lo ha dato lui, Mario Draghi, non per difendere se stesso, ma avendo il dovere di interpretare i fatti. Se tradiamo i fatti per quello che sono andiamo tutti a gambe all’aria e, quindi, non c’è più spazio per giocare con le parole, le letterine, i proclami, le uscite dall’aula, il doppio gioco di chi indossa di giorno l’abito del sindacalista e di sera la tuta del Melenchon italiano. Quello che ha lanciato ieri Draghi, in conferenza stampa dopo l’incontro con i vertici di Cgil, Cisl e Uil, è un ultimatum che appartiene alla categoria degli ultimatum seri, quelli che non si scrivono sui muri, ma che restano a futura memoria.
Questo governo di unità nazionale governa, l’economia italiana va meglio delle altre economie europee e sta preservando più di tutti il potere d’acquisto delle famiglie e la fiducia dei produttori, ma il rischio inflazione con il suo carico di diseguaglianze è reale e, quindi, bisogna fare di più in modo strutturale e urgente. Perché questa è la stagione della responsabilità, non dello scontro sociale, questo messaggio vale soprattutto per Landini, e se è una sofferenza così pesante stare dentro questo governo – vale per Conte e Salvini – lo si dica almeno con chiarezza. Nessuna crisi viene risolta se non c’è la fiducia che si sta lavorando per risolverla e, per questo, Draghi ha giustamente più volte sottolineato che il governo non è stato con le mani in mano. Che più di trenta miliardi per attenuare il caro bolletta sui costi delle imprese e ridurre l’impatto sul potere di acquisto delle famiglie senza fare scostamenti di bilancio che ci esporrebbero ad altri rischi sui tassi, non sono proprio una bazzecola.
Se si parte da questa consapevolezza è più facile capire che è arrivata l’ora di interventi strutturali e urgenti – nuova contrazione del caro energia, taglio del cuneo fiscale tutto a vantaggio dei lavoratori, salario minimo – che non sono più rinviabili. Soprattutto è possibile farlo, perché ci si crede e, dunque, si collabora per ottenere l’obiettivo. Siamo, purtroppo, il Paese delle maschere dove ognuno vuole la sua parte nel teatro dell’arte, ma in realtà c’è un solo copione non da recitare bensì da attuare che può consentire all’Italia che ha fatto più di tutti in Europa di non finire nella trappola globale dell’inflazione e degli shock conseguenti, a partire da quelli sociali. Perché l’inflazione, come è noto, è la più ingiusta delle tasse e costitutivamente, per il solo fatto di esistere, allarga le diseguaglianze e l’area della povertà. Senza considerare che l’inflazione se diventa una cosa ancora più seria di quella attuale, perché non affrontata, perché non capita, perché non si riesce ad allentare o semplicemente perché scappa di mano la spirale perversa prezzi-salari, mina le fondamenta delle democrazie.
Perché le democrazie sono basate sul contenimento delle diseguaglianze e questo richiede un ruolo dei soggetti politici e, soprattutto, di quelli che rappresentano lavoratori e datori di lavoro che denoti la volontà di costruire un vero patto sociale chiedendosi preliminarmente che cosa possono fare loro non che cosa devono sempre avere da qualcun altro. Spiace dovere constatare che i comportamenti di Landini – l’unico risultato è quello di un altro incontro sono le sue parole davanti alle telecamere sotto Palazzo Chigi – delineano l’ennesimo profilo fabbricato dal talk show della rovina italiana.
Se uno va a rileggere i diari di Bruno Trentin, la polemica che fa con Bertinotti, l’interlocuzione decisiva con Ciampi che consentì l’accordo sulla politica dei redditi e l’uscita dell’Italia dalla spirale dell’inflazione che si mangiava l’economia e il reddito dei lavoratori, si rende conto della differenza di spessore tra i due personaggi che non è misurata solo dalla lettura dei classici francesi, ma anche proprio dalla capacità concreta di misurarsi con i problemi che è l’esatto opposto di agitare gli spettri della catastrofe. Come quando lo stesso Trentin, all’inizio degli anni Sessanta, a un convegno del Pci sul neocapitalismo disse chiaro e tondo che quello era il mondo nuovo con cui loro dovevano fare i conti.
Oggi viceversa hai la percezione quasi fisica, proprio ascoltandolo, che il catastrofismo sia la molla che muove Landini, un po’ meno per fortuna Bombardieri. Sembra quasi che entrambi si augurino comunque che non vadano bene le cose. Sembra quasi che sperino che qualcuno stacchi la spina. Questo agitare lo spettro della disfatta sociale sembra rispondere a un rendiconto personale che fa pendant con il rendiconto politico perseguito dai Cinque Stelle. Che rivelano leadership capaci di esprimersi solo facendo demagogia e auspicando lo sfascio. Per cui tutti, ma proprio tutti, sono sfruttati, e lo resteranno pure se arriverà il salario minimo, pure se si rinnoveranno i contratti scaduti da nove anni, pure se si taglierà la pressione fiscale sui ceti più bassi aumentando gli stipendi netti, perché dietro tutto ciò c’è il progetto politico del nuovo Melenchon italiano che è incompatibile con la soluzione del problema. Nel nostro Paese c’è un’attitudine storica di un certo mondo di intellettuali, di sindacalisti, di giornalisti che sono cresciuti nella lunga stagione della sceneggiata per cui c’era chi faceva il padrone e chi faceva il rivoluzionario, ma poi si andava a cena tutti insieme. Ora la situazione, tra pandemia, guerra, inflazione, siccità, divario crescente tra Nord e Sud del Paese, è diventata una cosa seria e non si può più fare la sceneggiata di una volta. Servono soggetti sociali e politici capaci di fare politiche propositive e che dimostrino di essere capaci di non fare più parti uguali tra diseguali, come insegnava Don Milani. Perché la demagogia, che è il male del momento, non ammette questa cosa. Anzi, meglio, la ammette in teoria, ma poi conclude che sono tutti diseguali, sono tutti sfruttati.
Non si può tassare il tassista che ha una rendita di posizione come l’operaio sfruttato a 700 euro in nero o anche contrattualizzato a 1200 euro, ma questo non lo si dice e tanto meno lo si fa. Non si può pensare che il balneare sia uguale ai circa tre milioni senza salario minimo e senza niente, ma è così. D’altro canto se vuoi fare il vero patto sociale devi concepire interventi con una platea selettiva, ma sono tutti terrorizzati dal non dare consenso all’avversario. I sindacati non difendono i giovani perché hanno paura che gli scappino di mano i garantiti, ma così le diseguaglianze possono solo allargarsi. Il realismo di Draghi è un’occasione per tutti, in casa e in Europa, guai se lo si dovesse sprecare per qualche progettino politico di terza serie.
A chi lo concepisce e lo pratica, questa volta, gli italiani presenterebbero un conto che non può pagare, perché riguarda la dignità che una volta che si perde in così malo modo non si può più recuperare.
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