Matteo Salvini e Giorgia Meloni
5 minuti per la letturaLa valutazione delle amministrative non può che partire dal dato dell’affluenza. Il 54,73% di partecipazione al voto al primo turno non è certo un segno di fiducia nel sistema dei partiti. Continua il trend negativo in corso da tempo. Colpisce che la disaffezione al voto riguardi proprio la dimensione comunale, quella – almeno teoricamente – più vicina al cittadino. Così come colpisce che un’affluenza così scarsa si registri fin dal primo turno.
Allo stesso tempo, bisogna valutare due elementi non secondari. Il primo: il voto per le amministrative è meno ideologico. Pertanto, l’urgenza di correre alle urne è meno impellente. Secondo: a giudicare dal confronto tra le previsioni elettorali e i risultati effettivi pare che l’esito delle singole sfide fosse già abbastanza delineato. Quando è così non scatta uno stimolo sufficiente per ritenere decisivo il proprio voto.
Sul piano dell’affluenza, è probabile che l’unica partita interessante dei ballottaggi del 26 giugno possa essere quella di Verona. Passando al risultato politico di questo voto, c’è da chiedersi innanzitutto se i risultati delle comunali possano dirci qualcosa di significativo in vista delle elezioni politiche del 2023. La risposta più semplice è: No.
Difficile immaginare una lezione nazionale per situazioni assai specifiche come quelle di Genova (con l’exploit dell’uscente sindaco Marco Bucci), di Parma (al termine di una lunga stagione di sconfitte per il Partito Democratico), di Verona (dove Flavio Tosi ha fatto pesare una popolarità locale non riproducibile a livello nazionale) o di Palermo (dove la città esce estenuata dalla seconda fallimentare stagione di Leoluca Orlando).
A tutto questo si aggiunga il fatto che i sistemi elettorali sono molto diversi. A livello locale, l’elezione diretta del sindaco e il doppio turno con ballottaggio creano le condizioni per una logica bipolare insuperabile che obbliga le forze politiche a coalizzarsi in funzione del sindaco. A livello nazionale, ormai dai tempi del Porcellum, la dinamica è sostanzialmente proporzionale, con una modesta correzione maggioritaria. Il che significa che la costruzione delle alleanze è spesso artificiale (e suscettibile di saltare una volta costituiti i gruppi in parlamento), mentre prevale una logica di competizione interna tra i partiti di ciascuna coalizione. Sicché, in prospettiva, l’aspetto più stimolante di questa tornata elettorale sembra proprio la ridefinizione dei rapporti di forza tra i partiti nei due principali schieramenti.
Laddove si presenta unito, il centrodestra appare comunque in buona salute. I candidati sostenuti da Fratelli d’Italia e Lega sono avanti a Gorizia, Belluno, Alessandria e Pistoia. In tre capoluoghi di regione – Palermo, Genova e L’Aquila – il centrodestra vince al primo turno. Sicuramente hanno influito l’apprezzamento per i sindaci uscenti o la debolezza degli sfidanti.
Ma il dato politico più nuovo a livello di liste è la conferma del sorpasso di Giorgia Meloni nei confronti di Matteo Salvini. Non solo, come era scontato, nelle città del Sud, da Messina a Catanzaro. Ma anche in diversi comuni del Nord: basti pensare a Genova. La tendenza era chiara da tempo nei sondaggi, ma oggi arriva la conferma dei dati reali. Al punto che Salvini prova a farsene una ragione: “Lo sforzo della Lega di essere collante del centrodestra, anche sacrificandosi in prima persona, è la strada vincente”, dice il Capitano commentando in conferenza stampa in via Bellerio a Milano il risultato delle amministrative.
Insomma, il centrodestra unito val bene qualche sacrificio per la Lega. La verità è che, in questa fase, la leader di Fratelli d’Italia mostra di avere una marcia in più, a dispetto dello stato confusionale del capo del Carroccio. Il quale ultimo, però, gode ancora dello scudo protettivo di Silvio Berlusconi. Il Cavaliere ritiene ancora necessaria una intesa nordista e centrista per bilanciare il peso crescente della Meloni.
Sull’altro versante, quello del centrosinistra, tira un sospiro di sollievo il Partito Democratico, ancora in cerca di riscatto dopo il tonfo delle elezioni politiche del 2018. Il risultato non è affatto sconvolgente, ma sufficiente per guardare con fiducia all’appuntamento delle politiche del prossimo anno. Soprattutto, il Pd – che in qualche momento aveva temuto di fare la fine dei socialisti francesi – resta senza dubbio il primo partito del centrosinistra, perno indispensabile della coalizione, quale che sia la sua futura composizione. Il partito guidato da Letta è ben radicato sul territorio e capace di selezionare una classe dirigente competitiva.
Il problema, semmai, riguarda gli alleati. I risultati confermano infatti il progressivo sfarinamento del M5s che in alcuni casi non ha nemmeno presentato dei propri candidati e, quando lo ha fatto, è stato severamente punito dal voto. A Genova i grillini sono crollati dal 20 al 5 per cento. A Parma praticamente si sono dissolti, al punto che l’ex Pizzarotti li considera un “fenomeno sopravvalutato”. Qualcuno osserva giustamente che il Movimento non ha mai brillato nelle amministrative. E che, a fronte di ripetute tragiche previsioni postelettorali, ha sempre rialzato la testa in occasione delle politiche. Tutto vero, ma questa volta la sensazione è diversa.
Il M5s ha perso la furia sconvolgente delle origini e vive una stagione di convulsioni che ne trasformeranno definitivamente il profilo e le dimensioni. Gli elettori non considerano più i 5s come un’opzione sensata. Piuttosto preferiscono astenersi. Grave segnale per Giuseppe Conte. Per vari motivi, Enrico Letta cercherà di tenersi buoni gli alleati. Primo: perché deve dare la sensazione che una coalizione capace di tener testa al centrodestra esiste. Secondo: per tranquillizzare il corpaccione storico del partito che vede nei grillini dei compagni dal sen fuggiti. Terzo: perché il Pd sarà pure in ripresa, ma per raggiungere i numeri del centrodestra serve mettere dentro tutti e gli elettori del primo partito attualmente in parlamento fanno gola. Ma non sarà sufficiente.
La soluzione ‘giallorossa’ non è affatto garanzia di vittoria elettorale: le amministrative lo mostrano chiaramente. Piuttosto, il Pd non può sottovalutare la consistenza dei partiti liberali. Per ora Italia Viva ha giocato di sponda, alleandosi a destra o a manca con i vincenti. Di Benedetto a L’Aquila, Ferrandelli a Palermo e Dario Costi a Parma sono la dimostrazione che esiste un potenziale elettorato centrista e riformista che guarda a Carlo Calenda (Azione e Più Europa), ma resta alternativo alla destra. Vedremo. Una cosa, intanto, è certa. Nulla di quanto è accaduto nel weekend – ovvero la rappresentazione delle debolezze di tutti – potrà avere influenza sulla durata e la stabilità del governo.
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