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POTENZA – L’assassino di Egidio De Fina, il 64enne ucciso a bastonate nel 2001 nelle campagne di Senise, non è Domenico. Il figlio maggiore.
Lo ha deciso ieri pomeriggio dopo una camera di consiglio durata circa due ore la Corte d’assise di Potenza, respingendo la richiesta di condanna all’ergastolo avanzata dalla Procura di Lagonegro.
I giudici non hanno creduto alle parole della grande accusatrice di Domenico De Fina, che è poi la madre: Antonia Abalsamo. Inoltre hanno disposto la trasmissione degli atti in procura «in ordine al reato di falsa testimonianza» nei suoi confronti.
Adesso, gli inquirenti guidati dal procuratore Vittorio Russo dovranno valutare le dichiarazioni della donna, che dopo aver scoperto il corpo del marito ha puntato subito il dito contro il primogenito.
Domenico, infatti, sarebbe stato la “pecora nera” di una famiglia perfetta, secondo il quadretto tratteggiato dagli investigatori dell’epoca. Ma di udienza in udienza quel quadretto si è sgretolato, e anche il pm Francesco Greco, nella sua requisitoria, ha dovuto ammettere che le cose non stavano proprio così.
Egidio De Fina era un «padre padrone», indurito da una vita di lavoro e fatiche massacranti. Prima per crescere i fratelli più piccoli rimasti orfani in giovane età . Poi da emigrante in Svizzera e in Francia, per costruirsi una piccola fortuna. Una palazzina a Senise, e una grande casa in campagna. Mattone su mattone. Senza fare sconti a nessuno: nemmeno ai figli o alla moglie.
In aula l’avvocato Giuseppe Arbia si è soffermato a lungo sui rapporti tra la donna e il marito, e sulle stranezze nel suo comportamento.
Il 30 settembre del 2001 era stata lei a trovare il corpo assieme al cugino, che è anche l’ultima persona ad averlo visto in vita.
Questo è quello che l’uomo ha raccontato ai carabinieri, dicendo che verso mezzogiorno aveva raggiunto in campagna De Fina per acquistare 5 litri d’olio.
Ma qualche ora più tardi i due non avrebbero capito subito quello che era successo. Agli investigatori hanno detto di essere entrati nel casolare e di averlo visto per terra. Nel buio.
Non avrebbero nemmeno acceso la luce, preferendo la fiammella di un accendino. Anche se l’interruttore era lì, all’ingresso della stanza.
A quel punto avrebbero dato per scontato che fosse soltanto svenuto. Per tornare in paese a chiamare un ambulanza, e riprendere la strada verso la campagna dopo mezz’ora, quando finalmente hanno acceso la luce e si sono accorti che era disteso in una pozza di sangue. Col cranio fracassato.
L’avvocato ha evidenziato anche quanto accaduto dopo la morte di De Fina. Col tesoretto stimato sui 750mila euro e spartito tra la donna e i due figli.
Per l’accusa il movente di Domenico sarebbe stato quello di metterci le mani sopra. Ma a oggi Arbia ha spiegato che «sono altri che stanno godendo l’eredità». Quindi la madre e il fratello minore Francesco. Lo stesso che in udienza aveva provocato il controesame del presidente della Corte. E da testimone si era trovato costretto a rispondere sui suoi spostamenti per il giorno del delitto.
Mentre a Domenico sarebbe toccata solo parte della casa in campagna, ancora allo stato di rustico, e un piccolo pezzetto di terreno attorno.
«Siamo sicuri che la morte di De Fina interessasse solo a Domenico?» Ha insistito il legale ai giudici dell’assise. «Perché ad aprire la successione e a intentare un giudizio civile sull’eredità sono stati loro, non certo il mio assistito».
In aula c’era solo lui, l’imputato: tecnico 53enne con vent’anni di esperienza nel milanese. Tornato in Basilicata per stare vicino alla figlia.
Per il verdetto ha dovuto aspettare 14 anni di sospetti, accuse e un processo iniziato soltanto nel 2011. Nonostante l’alibi per l’ora del delitto, e una prima perizia sui reperti prelevati sul posto, che ha escluso subito la presenza del suo Dna. Come pure di quello del padre sugli abiti sequestrati nella sua abitazione. Lo stesso identico risultato raggiunto dai carabinieri del Ris incaricati di un nuovo esame dalla Corte d’assise.
Nel frattempo non sono mancati episodi sospetti. Come quando è spuntato fuori un testimone che ha detto di averlo visto scappare dalla campagna. Un noto pluripregiudicato della zona, che in seguito è stato clamorosamente smentito.
Persino sull’arma utilizzata per colpire 18 volte il cranio di Egidio De Fina gli inquirenti hanno ammesso di non avere raccolto certezze. L’assassino potrebbe averla portata con sé, senza lasciarsi dietro nemmeno un’impronta insanguinata.
Insomma appare difficile che si sia trattato di un omicidio d’impeto. Ma se non è stato Domenico De Fina, allora chi?
Per i giudici i pm di Lagonegro devono ripartire dalle bugie della madre.
Le motivazioni della decisione verranno depositate entro 90 giorni.

l.amato@luedi.it

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