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Draghi, Lamorgese e Giannini all’inaugurazione della mostra “Antimafia itinerante”

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«Le mafie si insinuano nei consigli d’amministrazione, nelle aziende che conducono traffici illeciti – al Nord e nel Mezzogiorno». Ha pronunciato la parola “Nord” prima di “Mezzogiorno”, Mario Draghi. E, forse, è proprio questa la vera novità che è emersa dal discorso del premier nella sede di Milano Dia. Ed è emblematico anche il luogo in cui il discorso viene tenuto, in occasione dei 30 anni dell’istituzione della Dia e dei cinque della sede di Milano.

Certo, il fenomeno è datato, ma è la prima volta che un presidente del Consiglio indica come priorità del governo la lotta alla mafia imprenditrice, fenomeno che chiama in causa pezzi di società civile delle regioni settentrionali, quelle che una volta venivano chiamate le “aree non tradizionali” di espansione delle mafie italiane e in particolare della ‘ndrangheta (peraltro l’unica organizzazione criminale ad essere presente in tutti i continenti).

Perché imprenditori, politici e funzionari del Nord, che si muovono in una vasta e vischiosa zona grigia, con le mafie vanno a braccetto e ci fanno affari. E perché è ormai superata la visione secondo cui l’espansione delle mafie in aree diverse da quelle della loro genesi storica sia equiparabile a una patologia contagiosa, alla stregua di un esercito che invia nei territori di conquista dei presìdi.

La situazione è alquanto diversa. Lo sa bene Antonio Nicaso, lo storico delle organizzazioni criminali che insieme al procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, su questi temi ha scritto un libro dal titolo significativo, “Complici e colpevoli”. Ma, prima ancora, è stato protagonista, insieme allo stesso Gratteri e al numero due di Eurojust, Filippo Spiezia, di un forum organizzato dal Quotidiano del Sud. Magistrati e studiosi di questo calibro, incalzati dal direttore Roberto Napoletano, affermarono, nel maggio 2020, che il salto di qualità contro una mafia deterritorializzata non è più rinviabile. Un concetto che ancora non fa parte del dominio conoscitivo del legislatore europeo, altro tema di quel forum.

Oggi Draghi però dice che «l’Italia può e deve avere un ruolo guida a livello europeo nella lotta alla criminalità organizzata» perché «siamo all’avanguardia nella legislazione antimafia e nella protezione dei testimoni e dei loro familiari, uno strumento fondamentale per la giustizia sin dai tempi del maxiprocesso» tant’è che lo riconosce anche il primo ministro olandese Mark Rutte che, come ricorda il premier italiano, ha annunciato che i ministri olandesi verranno in Italia per imparare dai nostri esperti. Chi non vuole capire che le mafie che non sparano sono altrettanto pericolose, insomma, di quelle sanguinarie che tengono sotto scacco interi territori del Meridione d’Italia (“al Sud i delitti e al Nord gli affari”, è un vecchio leit motiv) non ha colto che c’è un fenomeno autonomo che chiama in causa tratti peculiari delle società del Nord Italia e del Nord Europa. Le mafie vanno là dove c’è la polpa, cioè gli affari, il potere, e la loro possibilità di mimetizzarsi è accresciuta non solo dalle loro competenze di illegalità ma anche dalle relazioni di complicità nella sfera (apparentemente) legale dell’economia, della politica, delle istituzioni.

Basta leggersi le cronache degli ultimi anni, che danno notizia di arresti eccellenti di politici e imprenditori sempre più propensi ad accreditarsi per la loro reputazione mafiosa, e ricordare che il processo più grande contro le mafie in Italia degli ultimi 30 anni si è celebrato nella grassa Emilia. I modelli di insediamento cambiano a seconda dei contesti territoriali ma la sostanza non cambia.

«Le cosche come quelle della ‘ndrangheta si sono diffuse nel Nord Italia – in Lombardia, in Piemonte, in Liguria, in Veneto, in Valle d’Aosta, in Trentino Aldo Adige. Qui si è radicata la “mafia imprenditrice”, come ha denunciato il questore di Milano Petronzi. Si impossessa di aziende in difficoltà, si espande in nuovi settori, ricicla denaro sporco, rende inefficaci i servizi, danneggia l’ambiente. Per questo, il contrasto alla criminalità organizzata non è solo necessario per la nostra sicurezza. È fondamentale per costruire una società più giusta». Dice le stesse cose che dicono Gratteri e Nicaso, Draghi.

Ma il professor Nicaso le accoglie con un «sentimento misto». Perché, da un lato, «finalmente Draghi comprende l’importanza della lotta ai capitali mafiosi che mi auguro possa diventare prioritaria nell’agenda politica. I soldi della mafia – spiega lo storico – sono diventati componente strutturale del capitalismo globale. Non parliamo più, infatti, dei fondi dei sequestri di persona reinvestiti in traffici di droga ma di miliardi che finiscono nell’economia legale con una facilità impressionante, ed è per una logica perversa che vengono ammazzati uomini come Falcone. Perché Falcone ha cominciato a mettere il naso nelle banche e allora si è cominciato a dire che voleva rovinare l’economia, e questo gioco coinvolgeva settori non legati al mondo mafioso che attuarono una vendetta trasversale contro chi voleva seguire le strade del denaro. Quando le mafie investono e riciclano non danno fastidio, ma questa è la grande sfida».

Nicaso valuta pertanto «positivamente» il discorso di Draghi, anche se «ora bisogna affrontare il problema e trovare soluzioni». Il suo però è un sentimento misto perché, d’altro canto, Draghi lo ha «profondamente deluso perché quando si è saputo dei progetti di attentati a Gratteri né lui né il ministro della Giustizia gli hanno espresso solidarietà. Mi ha veramente sorpreso – rincara la dose il professore – Non succede da nessuna parte che uno dei più importanti magistrati subisca qualcosa del genere e che il capo del Governo non senta il bisogno di esprimere solidarietà a nome del Paese». Per Nicaso è «negativo anche il segnale della Cartabia. Una cosa è non essere d’accordo con Gratteri sulla riforma, ma in questi casi dovrebbe emergere il senso dello Stato. È qualcosa di disgustoso che non pensavo potesse succedere in un Paese come l’Italia, senza verità e senza memoria. E poi – aggiunge con amarezza – andiamo a commemorare Falcone Borsellino. Queste ipocrisie del potere devono finire, la memoria se non diventa azione non vale molto, altrimenti non abbiamo imparato nulla dal passato».

Eppure sui contenuti del discorso di Draghi anche lo storico delle mafie concorda. Perché Draghi segue la strada di Falcone, quella dei soldi, quando dice che sono obiettivi al centro dell’azione di governo, «in cima alle priorità», gli interventi di circa 300 milioni di euro in programma nel Pnrr per il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. «Restituiamo questi beni alla comunità per ospitare nuova edilizia residenziale pubblica, centri culturali per i giovani, asili nido e centri antiviolenza per le donne e i bambini. Istituiamo un Osservatorio Permanente sui beni sequestrati e confiscati, per garantire un’informazione affidabile e aggiornata», dice il premier. Un tema su cui l’Italia è in grado di fare scuola in Europa.

Osserva Nicaso: «È una grande intuizione quella dei beni confiscati, i cui proventi negli altri Paesi finiscono nelle casse dei dipartimenti della giustizia e ne finanziano le attività, da noi vengono restituiti alle comunità a cui quei beni sono stati sottratti con la violenza, un messaggio forte anche dal punto di vista simbolico. Ma la gran parte dei beni confiscati non viene riutilizzata e rischia di marcire e la legge va modificata altrimenti si rischia di dare un segnale negativo alle comunità».

Resta qualche nota dolente, anche alla luce della mancata nomina di Gratteri a procuratore nazionale antimafia, che però non sorprende Nicaso. «Non lo nominarono neanche procuratore di Reggio Calabria, quando non appartieni a correnti in magistratura parti sfavorito». Intanto, un fatto nuovo c’è. Almeno in termini propositivi. Il governo indica tra le priorità della sua agenda la lotta a quella strategia della sommersione che ha consentito ai boss di infiltrarsi nei gangli dell’economia del Nord e che è stata ripetuta in Europa.


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