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Sandro Principe e Umberto Bernaudo

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COSENZA – Il fatto non sussiste. O meglio: il “Sistema Rende”, inquinato dalla ’ndrangheta e condizionato dalla malapolitica così come lo aveva congegnato la Dda, non sussiste. Un’assoluzione collettiva ha posto fine ieri al processo contro Sandro Principe e i suoi coimputati Umberto Bernaudo e Pietro Ruffolo accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, voto di scambio e corruzione. Con loro, ma in posizione più defilata anche Giuseppe Gagliardi.

Rischiavano pene comprese fra due e nove anni, con la condanna più alta richiesta ovviamente nei confronti del leader socialista. È finita in gloria invece, con la lettura del dispositivo bagnata dalle lacrime copiose dello stesso Principe, un momento emozionale al quale l’abbraccio liberatorio con i suoi avvocati Franco Sammarco e Anna Spada ha aggiunto ulteriore solennità.

Un paio d’ore di camera di consiglio sono bastate, dunque, a cancellare dieci anni di calvario giudiziario, durante i quali Principe e i politici a lui vicini, quelli di un tempo felice ma ormai lontano, hanno dovuto difendersi dall’accusa di aver conseguito i rispettivi successi elettorali grazie all’appoggio del clan Lanzino. Diverse, in tal senso, le competizioni finite nel mirino dei magistrati, a partire dal 1999 e almeno fino al 2011. Il tutto in ossequio a un sistema, quello che dava il nome all’inchiesta, le cosiddette regole rendesi secondo le quali «Non si muove foglia che Principe non voglia».

Stringi stringi però, la presunta contropartita offerta ai clan in cambio di un sostegno elettorale così duraturo era molto risicata: qualche assunzione nella cooperativa comunale, un piccolo bar dato in concessione ad Adolfo D’Ambrosio, gauleiter rendese di Lanzino, e nulla più. Ombre che appartengono al passato, spazzate via in un pomeriggio  di primavera più torrido del solito. Fa ancora caldo quando l’ex sottosegretario varca la soglia del tribunale in uscita, magari con la speranza di non rimetterci più piede. Va via con un ricordo spiacevole in meno. E una cicatrice in più.

LA GIORNATA

Le ultime due discussioni difensive in programma hanno anticipato la lettura della sentenza. Ad aprire le danze in aula è stato Franz Caruso, che come sindaco sarà ancora da scoprire, ma che con l’occasione ha ricordato a tutti di essere un oratore sopraffino. «Questo è un processo politico – ha tuonato – un processo che non avrebbe dovuto neanche celebrarsi, e alla sbarra c’è un metodo di esercizio della leadership politica». Il difensore di Ruffolo ha evidenziato come a carico del suo assistito non vi fosse «un solo fatto di rilevanza penale, neanche un elemento che lo pone in contatto con il clan Lanzino» e ha esteso il ragionamento «all’autonomia della politica rispetto alla magistratura», biasimando quelle Procure «che se non hanno il politico da inquisire allora non fanno neanche più i processi».

A tal proposito, pur ribadendo di nutrire «grande stima professionale» nei confronti del rappresentante della pubblica accusa – Pierpaolo Bruni – ha posto l’accento sui «tanti sindaci inquisiti, eliminati dalla vita pubblica, e poi assolti.  Tirreno docet». Clava e fioretto, dunque, con l’ultima stoccata, in chiusura, citando il Carducci: «Se Giustizia e libertà sono le ultime dee superstiti, il pm le ha calpestate entrambe».

Di «processo al processo» ha parlato, invece, Franco Sammarco, evidenziando come tutti i temi d’accusa fossero gemelli di quelli formulati nell’inchiesta del 2009 poi finita in archivio. Anche lui ha volato altissimo, in equilibrio fra richiami alla Costituzione e alla filosofia del diritto, per affondare poi il bisturi su un teorema d’accusa frutto di «una visione distorta e di un modello investigativo  che insegue l’indagato modellandogli addosso la notizia criminis». Ciò che a suo avviso è avvenuto con Principe. Un esempio? «La Procura ha voluto sentire solo i suoi oppositori politici – «personaggi folkloristici» li aveva definiti poco prima Caruso – ma non «gli assessori, i rappresentanti delle istituzioni religiose e culturali che avrebbero dato un senso molto diverso alle regole rendesi, il tema centrale del processo». Fuoco a volontà anche sui collaboratori di giustizia – «rastrellati, raccattati a casaccio» – e parafrasando il codifensore Anna Spada, caratterizzati dall’assoluta «mancanza di autonomia genetica e contenutistica».

Un richiamo alla politica, il convitato di pietra, gli ha dato modo di attualizzare la stilettata alla Dda: maggio 2019,  Principe si candida da imputato alle elezioni amministrative di Rende e viene sconfitto al ballottaggio da Marcello Manna, il che per Sammarco si traduce così: «Perseguendo l’inquinamento del voto, si è finito per condizionarlo». Il finale, manco a dirlo, lirico con tanto di monito al collegio presieduto da Stefania Antico con Urania Granata e Iole Vigna a latere: «Non chiedetevi quale norma applicare, bensì cosa sia giusto fare. Pronuncerete una sentenza in nome del popolo italiano, ma sappiate che quel popolo, Principe lo ha già assolto». Non solo quello, ora è certo.    

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