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Francesca Morvillo e Giovanni Falcone

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Come tutti gli italiani anche io ricordo dove ero il 23 maggio del 1992 quando a Capaci Cosa nostra ritiene di chiudere la partita con Giovanni Falcone con l’attentato che entra nella storia nazionale.

Ma io ricordo, ho il vizio della memoria, ricordo quello che molti pensavano e scrivevano di Falcone prima della sua morte, di quella della moglie e dei suoi agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Io ricordo Leoluca Orlando, eterno sindaco di Palermo, amico di Giovanni Falcone, che non esita alla celebre trasmissione di Maurizio Costanzo e Michele Santoro a chiedergli conto dei fascicoli “che dormono nei cassetti”. C’era anche Alfredo Galasso della Rete che diceva: “Non mi piace Giovanni che stai nel palazzo del Potere”. Era la stessa trasmissione dove guardammo le intemerate di uno allora sconosciuto Totò Cuffaro, condanna scontata per mafia e oggi riapparso come mossiere delle prossime elezioni in Sicilia.

Falcone non aveva insabbiato nessuna inchiesta perché era un inquirente che cercava le prove. Io me li ricordo i diari di Falcone, era stato un suggerimento di Rocco Chinnici quello di scrivere ogni notizia rilevante, in cui ho letto dei colleghi Pignatone e Lo Forte che vanno dal cardinale Pappalardo per acquisire notizie sul delitto Mattarella, senza informare il coordinatore delle indagini antimafia a Palermo. Pignatone e Lo Forte, i preferiti del procuratore Pietro Giammanco che costrinse Falcone ad andare via da Palermo. Ricordo una signora democristiana membro laico del Csm, Ombretta Fumagalli Carulli, che accusava Falcone di aver coperto le indagini del costruttore Costanzo.

I quotidiani dell’epoca sono nelle emeroteche. Andate a consultare “Il giornale di Sicilia” e leggerete i fondi del direttore Pepi e di editorialisti che sparavano a zero su Falcone. Oggi sono sicuro che non ne faranno cenno. La gloriosa Unità non si stampa più. All’epoca ospitò un’articolessa del costituzionalista Pizzorusso membro del Csm che spiegava ai postcomunisti in punto di diritto perché Falcone non poteva guidare la superprocura antimafia. A Repubblica giornale dell’antimafia militante non hanno mai spiegato perché una delle sue firme più celebri, Sandro Viola, sia stato chiamato a demolire il libro-intervista a Falcone di Marcelle Padovani scrivendo: “…scorrendo il libro s’avverte (anche per il concorso d’una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi…”. L’articolo è scomparso da anni dall’archivio digitale del giornale.

Nei magistrati che hanno celebrato Falcone in questi trent’anni c’erano quelli dell’Anm che lo avevano considerato un traditore, molti di Magistratura democratica che di Giovanni avevano sempre diffidato, e anche il pool di Mani Pulite aveva ignorato la sua richiesta per avere degli allegati utili ad una rogatoria internazionale.

Roberto Saviano nei giorni scorsi ha scritto che l’uomo Giovanni Falcone sia stato poco raccontato. Non so se è vero. Di certo poco è stata raccontata Francesca Morvillo, sua moglie, unica magistrata uccisa dalla mafia. Una lacuna colmata nel trentennale dal libro “Francesca. Storia di un amore in tempo di guerra” scritto da Felice Cavallaro. Francesca che dopo il botto di Capaci è svenuta. Mantiene gli occhi aperti e ai soccorritori chiede: “Giovanni dov’è? Come sta mio marito?”. All’ospedale tenta di salvarla il professore Andrea Vassallo, rinviato a giudizio da Falcone per aver operato illegalmente mafiosi feriti in agguati. Due interventi in quattro ore non fanno il miracolo. Francesca è la quinta vittima di Capaci. Aveva solo 46 anni. Tra odi, rancori, vite blindate, quella di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo è una grande storia di amore e morte come quella dei danteschi Paolo e Francesca.

Francesca Morvillo, figlia e sorella di magistrati, una delle prime donne a prendere la toga. Procura dei minori a Palermo. Si sposa molto giovane, va male. Decide di andare a vivere con la mamma vedova. Una grande lavoratrice. In tre anni capace di chiudere 1070 pratiche. In casa di amici incontra Giovanni Falcone. Anche lui con un matrimonio da dimenticare. È amore a prima vista. Da nascondere ai veleni del Tribunale di Palermo.

Francesca sarà il porto di quiete del personaggio Falcone. Vita da guerra blindata. Francesca si cura della piccola quotidianità di Giovanni. Gli prende un oggetto, compra una cravatta, segue le novità editoriali e discografiche. Il presidente della Corte d’Appello, Giovanni Pizzillo, affronterà a muso duro Falcone che avversava: “Giudice, lei da scandalo per la sua relazione con la collega, le consiglio di chiedere trasferimento per non essere costretto a rivolgermi al Csm”. Falcone non si scompone e risponde: “Eccellenza, non abbiamo nulla da nascondere. Nulla da rimproverarci. Faccia pure quello che ritiene suo dovere”. Quelli come il dottor Pizzillo, oltre a capir poco di Giustizia, comprendono poco di sentimenti. Si sposeranno nel 1986. In municipio solo i testimoni. Per Giovanni il giudice Caponnetto. Falcone per l’occasione ha rinunciato alla scorta. La sera cena da un caro amico con sei invitati. C’è anche Enzo Biagi che per il magistrato non è solo un giornalista.

Le uniche vacanze della coppia con gli amici magistrati sono causate da indagini internazionali. Una parentesi nella vita blindata. Andarono anche all’Asinara quando Falcone e Borsellino preparano il maxiprocesso e Francesca si porta anche la mamma dietro. Il fallito attentato dell’Addaura alza la tensione a mille. A Francesca per 48 ore cala la voce, riesce a trovarne un filo per dire ad un amico: “Qualcuno ha tradito”. Falcone capisce che anche Francesca è in pericolo. La manda via e resta solo all’Addaura, sdraiato su un pavimento e con una pistola sul tavolo.

Dopo Capaci, nella casa di via Notarbartolo, sarà ritrovato un biglietto scritto da Francesca in quella notte dopo l’Addaura: “Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore”. Di recente Ilda Boccasini ha ritenuto opportuno confessare una sua passione per Falcone. Un’altra parentesi che non cambia molto nella storia di Giovanni e Francesca. Ritroveranno serenità a Roma. Nelle settimane prima dell’attentato. Avevano deciso di non avere figli consapevoli del rischio che correvano. Dopo la strage di Capaci, davanti alla loro casa in fitto di via Notarbartolo a Palermo, comparirà una scritta anonima: “Sempre vivranno nella memoria della gente onesta”.

Qualche disonesto si presenterà ai loro funerali. C’è una chiusa triste. Francesca e Giovanni erano stati seppelliti insieme al cimitero di Sant’Orsola. Nel 2015 per volontà di Maria Falcone Giovanni fu traslato nella Basilica di san Domenico, il Pantheon dei siciliani illustri. In conseguenza di questa scelta Francesca è stata portata al Cimitero dei Rotoli. Resta unito il loro amore che nella sepoltura lacrimata hanno voluto dividere. Ricordiamo i morti. Ma ricordiamoli vivi.

(L’autore ha scritto “Toghe rosso sangue. Le storie dei magistrati uccisi in Italia”. Città del Sole).

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Fabio Grandinetti

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