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Riusciremo mai a comprendere perché l’uomo uccide i suoi simili? La verità è inafferrabile come il vento dove soffia la risposta a quest’eterna domanda, e forse non vogliamo ascoltarla perché ci fa troppa paura. “Blowin’ in the Wind” (in coda all’articolo una esibizione dal vivo di Dylan), leggendaria canzone di Bob Dylan diventata simbolo del movimento pacifista americano, compie 60 anni e li porta benissimo – ma sarebbe stato meglio ritrovarla serenamente invecchiata, perché se siamo qui a contare i morti dell’ennesima guerra, significa che quella risposta non l’abbiamo trovata. Oppure stiamo continuando a “fingere di non vedere”. La storia di questo memorabile brano nasce da un felice equivoco.
Tutto inizia il 16 aprile del 1962, quando, in un locale del Greenwich Village newyorkese, un giovane cantastorie del Minnesota esegue le prime strofe di un brano spirituale e ipnotico. E accende una scintilla. Quella musica sembrava parlare proprio ai ragazzi nelle cui case da un momento all’altro sarebbe arrivata una lettera angosciante: la chiamata all’esercito, destinazione Vietnam.
Dylan l’aveva composta di getto, dieci minuti di dolcezza e furore, immerso nell’atmosfera romantica di un caffè. Una struttura esatta, con l’alternanza di tre strofe e un ritornello, arte pura già nelle parole, e infatti a maggio viene pubblicata sulla rivista culturale Broadside di Pete Seeger, in un numero dedicato alla musica folk. Il cantautore, allora ventunenne e con un disco all’attivo, registrerà poi il brano il 9 luglio e l’incisione confluirà, un anno più tardi, nel suo secondo album, il mitico “The Freewheelin”.
Ma torniamo al club Gerde’s Folk City, quel 16 aprile in cui Dylan, chitarra e armonica, affida al vento un’inquietudine esistenziale. “Quanti passi bisogna fare per essere chiamati uomini, quanti mari solcare prima che una bianca colomba possa riposare sulla sabbia. Quante volte levare gli occhi in alto prima che si riveli il cielo”. Quanti errori sono concessi all’uomo – “girare la testa” davanti ai soprusi, ignorare chi soffre, privare un popolo della libertà – prima di accorgersi del male che attraversa il mondo. Domande che hanno a che fare con il senso della vita e la fragilità degli uomini, trasportati da passioni corrotte e inique. Artefici di disperazione, incapaci di ripudiare la violenza e anche di motivare il loro cieco agire. Esiste però una risposta che spiega tutto questo dolore, e vale la pena provare ad afferrarla, mentre fischia nel vento.
La melodia del brano s’ispirava a un canto degli schiavi afroamericani, il testo a qualcosa che Dylan lesse nell’autobiografia del cantautore folk Woody Guthrie (la metafora dei fogli dei quotidiani trasportati dal vento a New York). Al concerto, presentando il brano, precisò: «Questa non è una canzone di protesta o niente del genere. L’ho scritta soltanto come qualcosa per qualcuno, da parte di qualcuno. Può significare qualsiasi cosa per chiunque».
Un semplice messaggio senza destinatario, rivolto alle coscienze e scaturito dall’esigenza di comprendere la radice delle ingiustizie umane. Invece la sorte di “Blowin in the Wind” era diversa, trionfale e coraggiosa: essere eletta manifesto della controcultura pacifista, con una chiara connotazione militante. Dylan non fece i salti di gioia. Ai giornalisti che ne parlavano come di una canzone popolare rispondeva inorridito: «Mio dio, spero di no!».
Nel gergo americano, “soffiare nel vento” vuol dire trattare una questione che, per quanto sia discussa e analizzata, non avrà mai soluzione. Ma a un ragazzo di ventun anni non bastava per assumere pose da sovversivo. Su Sing Out! spiegò: «Troppi di questi “hip” cercano di dirmi dove stia la risposta ma io non ci credo. Continuo a dire che è nel vento e come un pezzo di carta svolazzante un giorno arriverà. L’unico problema è che nessuno la raccoglie quando scende giù dal cielo e allora volerà via. Voi siete più vecchi e smaliziati e lo sapete meglio di me».
Bob Dylan non ama confondere la musica con l’impegno sociale – il ruolo di carismatico contestatore gli sta stretto dai tempi del sodalizio con Joan Baez, lo ritiene limitante e dannoso per la creatività. Nel 1962, prima di trasformarsi in paladino della protesta, era un ragazzo con la testa piena di lirismo e non cercava seguaci. Voleva soltanto creare poesia: associando “Blowin in the Wind” alla guerra del Vietnam l’avrebbe deprezzata in propaganda. A decidere al posto suo fu però il destino, con un piano perfetto per quelle strofe dove la guerra è centrale ma mai nominata.
All’improvviso, nei lunghi e fibrillanti mesi che anticiparono l’uscita di “Freewheelin”, presero a cantarla tutti – musicisti e gente comune. Perché apparteneva a tutti, ed è ancora così dopo oltre mezzo secolo.
Transgenerazionale e idealista, ha raccontato la lotte delle pantere nere e degli indipendentisti e si è persino adattata alla ribellione dei complottisti pandemici, ai quali due anni fa Dylan ha pure elargito qualche dissertazione da profeta. Da sessant’anni, questa canzone è di chi non vuole la guerra ma anche di chi la ritiene necessaria per spezzare catene e costruire la pace.
E oggi la intonano nella resistenza ucraina: un video divenuto virale mostra una ragazza che fa gestacci contro un carro armato russo, un rabbioso dito medio e la voce che canta Bob Dylan. Finì che anche lui si arrese: dopo quel 16 aprile il menestrello l’ha eseguita in oltre un migliaio di concerti.
«Può significare qualsiasi cosa», aveva detto, e infatti ognuno vi trova dentro la propria solitudine, il proprio grido di libertà. Nel 2016 Bob Dylan è stato il primo musicista a ricevere il Nobel per la letteratura, che ha accettato a modo suo, tenendo il discorso di ringraziamento su YouTube: come Omero, che anziché raccontare cantava alla Musa, accolse il Nobel raccomandandoci non di leggere ma di ascoltare le sue canzoni – nei dischi, ai concerti o nei mille modi in cui si fruisce della musica. Eseguita da un’infinità di artisti – da Duke Ellington a Neil Young, Cher e, tradotta in italiano da Mogol, Luigi Tenco – inserita da Rolling Stones tra le cinquecento canzoni più grandi di tutti i tempi, “Blowin in the Wind” fu anche al centro di una vicenda di presunto plagio. Il liceale Lorre Wyatt denunciò infatti Dylan rivendicando la paternità del brano per poi ammettere di aver inventato il caso, in cerca di fama.
L’iconica copertina di “The Freewheelin” ritrae Dylan e la fidanzata, la pittrice italoamericana Suze Rotolo, teneramente abbracciati su una strada di New York: si erano conosciuti nel Village e poi lei era partita per l’Italia e lui l’aveva cercata come un matto, ritrovandola casualmente sulla West Fourth Street durante quel servizio fotografico per il disco con Don Hunstein, a cui venne l’idea di quello scatto intimo. Certe volte siamo noi e non il destino ad essere crudeli, e così Bob lascerà Suze per Joan Baez. Perché, dopo aver fatto tanto per riaverla, si innamorò di un’altra donna? Quella sui moti del cuore è un’altra risposta sospesa nel vento, e sempre ci sfugge.
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