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TITO – Al solito bar, dove, da quando hanno perso il lavoro, si ritrovano quasi tutte le mattine, ormai non si parla d’altro. La Step one srl – quella che una volta era la Daramic e che in altri tempi pure ha conosciuto momenti d’oro – sta riaprendo le porte dello stabilimento.
Per molti il miraggio di nuova occupazione, in una terra che, dopo la chiusura di molte fabbriche del Potentino, ha dovuto imparare a convivere con il deserto di opportunità. Ma gli umori non sono quelli che ci si attenderebbe da una notizia del genere.
Anche chi per mesi è rimasto a casa, aspettando che prima o poi qualcosa accadesse, ammette di sentire puzza di bruciato.
Il timore è che diventi il perfetto emblema di molte storie imprenditoriali alla lucana, con molte speranze, poche certezze e tanti fondi pubblici.
La Step One che nel 2010, a cinque anni dalla chiusura della fabbrica, subentrava a Daramic, ora assume a tempo indeterminato. Dopo le lunghe e difficili vicende societarie, approdate anche in Tribunale e risoltesi definitivamente nel 2014, ora sembra che le cose stia andando in altra direzione.
Eppure, incredibile a credersi, c’è chi prima di accettare, ci sta pensando e non poco. Le perplessità intorno al progetto della Step one, che ha preso il posto della Daramic anche nell’operazione di bonifica dalla scia di veleni lasciata sul territorio dalla precedente compagine societaria, sono molte.
Gli imprenditori, che in questi anni hanno via via cambiato l’oggetto della produzione, ora intenderebbero fare pavimenti per treni.
Sono già partiti i corsi di formazione per una cinquantina di unità (di cui 30 ex Daramic), ma i lavoratori che sono entrati dentro allo stabilimento parlano di una fabbrica poco preparata.
Raccontano che non ci sarebbero ancora le attrezzature adeguate per garantire le attività promesse. Gli imprenditori offrono contratti a tempo indeterminato. Il che dovrebbe di per sè dovrebbe essere garanzia di buone intenzioni. Ma a pagarli sarà per buona parte la Regione.
L’azienda ha avuto accesso ai finanziamenti che la Giunta ha messo a disposizione dal bando, rivolto alle imprese, per la creazione di occupazione stabile: dei 5 milioni complessivi, la Step One, che ne aveva chiesti 1.300.000 euro, avrà un contributo di 805.000 euro. E non è un caso che l’azienda faccia esclusivamente assunzioni a tempo indeterminato e solo per coloro che risultano iscritti ai centri per l’impiego da almeno due anni. Ai lavoratori che arrivano da realtà produttive diverse rispetto a quella oggetto della nuova attività, sono richiesti soprattutto questi requisiti: quelli indispensabili per avere accesso ai fondi di viale Verrastro. In pratica – e il concetto non è proprio nuovo per la Basilicata – si fa impresa, ma solo se con i soldi pubblici.
Gli stessi si erano candidati anche ai fondi della reindustrializzazione: l’imprenditre fa ripartire il sito e la Regione ci mette metà dell’investimento. Ma a causa delle beghe societarie interne, la società è arrivata in ritardo.
Rispetto alla nuova forma di aiuto pubblico a cui Step One ha avuto accesso, c’è chi fa notare anche un’altra contraddizione: l’azienda prende il contributo, anche se è ancora debitrice nei confronti degli ex Daramic.
Acquisendo lo stabilimento, subentrava ai precedenti imprenditori anche nel pagamento del trattamento di fine rapporto. Il tfr non è stato ancora liquidato. I nuovi titolari si sono impegnati a pagarlo in due tranche tra giugno e dicembre dell’anno in corso. Ma certo è strano – sottolinea qualcuno – che l’azienda sia riuscita ad aggiudicarsi i contributi, nonostante il bando prevedeva chiaramente che le beneficiarie fossero in regola con il versamento di tutti gli oneri contributivi e previdenziali.
Il problema principale rimane un altro: passi il rilancio dello stabilimento attraverso i soldi pubblici, ma il piano industriale è realmente credibile? Il timore è che si tratti del solito modo di fare impresa in Basilicata. Quanto durerà questa nuova esperienza?
Degli ex dipendenti delle vecchie glorie della storia industriale lucana – dalla Mahle, alla Daramic, appunto – chi ha ancora un straccio di integrazione al reddito, ci riflette, prima di accettare: il contratto a tempo indeterminato farebbe perdere il diritto agli ammortizzatori. C’è chi teme, soprattutto i più giovani, che accettando oggi un posto con poco certezze, non farà che rinviare il problema.
Quando ci si potrebbe ritrovare nella stessa situazione, ma con qualche anno in più, e con credenziali ancora inferiori da poter spendere sul mercato di lavoro. Nel pari e dispari individuale, alla fine è il senso di disperazione a prevalere.
«Ci fosse un’altra possibilità», raccontano tra una considerazione e l’altra. Ma di questi tempi e da queste parti, non rimane che accontentarsi di quanto passa il convento.
m.labanca@luedi.it

 

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