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Il Centro d’accoglienza di Isola Capo Rizzuto

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CROTONE – L’effetto “Jonny” si allarga al livello istituzionale. L’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Gianluca Bruno, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, e il funzionario della Prefettura di Crotone Carmelo Giordano, accusato, invece, di aver intascato una tangente di 10mila euro, hanno ricevuto, insieme all’ex governatore della Misericordia di Isola e vice di quella nazionale Leonardo Sacco, figura chiave dell’inchiesta che nel maggio 2017 portò all’operazione Jonny da cui sono scaturiti due maxi processi con raffiche di condanne, un avviso di conclusione delle indagini fatto notificare dai pm della Dda di Catanzaro Domenico Guarascio e Pasquale Mandolfino.

Si tratta di una propaggine dell’inchiesta che avrebbe fatto luce sui tentacoli della cosca Arena di Isola Capo Rizzuto sul business dei migranti, ruotante attorno al centro d’accoglienza S. Anna, gestito all’epoca dei fatti dalla Misericordia.

Al termine di accertamenti della Guardia di finanza di Crotone, a Bruno, la cui sindacatura terminò nel 2017 con lo scioglimento del Comune di Isola per infiltrazioni mafiose, si contesta di essersi messo “a disposizione” degli imprenditori di riferimento della cosca, i cugini Antonio e Fernando Poerio e lo stesso Sacco, consentendo a «membri di vertice del sodalizio di acquisire lotti immobiliari nel comune di Isola Capo Rizzuto ponendosi quale figura di riferimento istituzionale capace di interloquire con diversi enti (Provincia e istituzioni governative) al fine di garantire alla Misericordia e ai suoi fornitori il controllo degli appalti serventi il Cara e il recupero dei crediti ivi afferenti».

Il filone politico dell’inchiesta si intreccia peraltro con quello dell’usura ed è alimentato dalle dichiarazioni rese dall’ex presidente del consiglio comunale isolitano Antonio Frustaglia, che riferì agli inquirenti di presunte ingerenze dell’ex sindaco. Uno dei numerosi immobili venduti dai familiari di Frustaglia, vittime di usura appunto, fu oggetto di una variante al Prg votata in Consiglio per il cambio di destinazione ad uso mensa; sul lotto di terreno con annesso capannone aveva sede la principale azienda servente il catering per la struttura per migranti tra le più grandi d’Europa.

Giordano, invece, risponde di corruzione poiché quale pubblico ufficiale, e precisamente nella veste di ragioniere in servizio presso la Prefettura, avrebbe ricevuto 10mila euro da Sacco, accusato di essere stato appunto il corruttore, al fine di omettere controlli sul subappalto da parte della Misericordia in favore di imprese terze del servizio di mensa per gli ospiti della struttura.

In particolare, avrebbe omesso di richiedere documenti attestanti i pagamenti effettuati dalla Misericordia alle imprese di ristorazione subappaltatrici succedutesi nel tempo, “La Vecchia locanda” di Antonio Poerio, “Catering La vecchia locanda” di Stefania Muraca, “Catering La Vecchia locanda srl”, “Quadrifoglio snc” di Pasquale Poerio &co, la “Quadrifoglio srl” imprese, secondo l’accusa, gestite di fatto da Angelo Muraca e dalla figlia Stefania, da Antonio Poerio e dalla moglie Maria Lanatà, da Fernando Poerio e dalla moglie Aurora Cozza (imputati già condannati nel processo Jonny). Giordano avrebbe così consentito alla Misericordia di liquidare in modo incontrollato e non tracciato le imprese impedendo alla Prefettura di verificare l’effettività delle forniture. A Giordano è contestata l’aggravante di aver agevolato la cosca Arena.

Ipotesi d’accusa che vanno lette in raccordo con le motivazioni della sentenza d’appello del processo Jonny con cui cui, oltre che condanne per 650 anni di reclusione, furono inflitte bacchettate al sistema dei controlli. Nel troncone del rito abbreviato 20 anni di reclusione furono comminati a Sacco, imputato chiave insieme all’ex parroco Edoardo Scordio (che però ha scelto il rito ordinario ed è stato condannato a 14 anni e mezzo) essendo stata accolta la tesi della Dda secondo cui attorno all’affaire Misericordia ruotava il gioco di «collusione» con la cosca.

In questo contesto non furono risparmiate critiche dai giudici alla Prefettura di Crotone con cui l’ente gestore del Cara aveva stipulato una convenzione. Secondo quanto emerso dal processo, «il denaro pubblico è stato solo parzialmente utilizzato per gli scopi previsti (sostegno, mediante dazione di beni e servizi di prima necessità, ai migranti) attraverso artifici contabili; falsa fatturazione di beni e servizi non realmente offerti al fruitore finale; gonfiaggio delle presenze nel campo profughi». Ciò, sempre secondo i giudici, ha fatto sì che «solo una parte del denaro pubblico abbia trovato legittima allocazione (in quanto destinato ai beneficiari di legge e al margine legale di guadagno dell’appaltatore) la maggior misura avendo invece plurime destinazioni, alcune reali, altre fittizie, ma tutte non autorizzate».

Il riferimento è alla realizzazione di opere, talvolta colossali come il centro Rosmini, a investimenti in titoli e immobili di ogni genere, alla creazione di società (la Miser e la Sea Lounge) poi beneficiarie di erogazioni di denaro da parte della Misericordia. Operazioni che «rientrerebbero nel libero esercizio dell’iniziativa economica privata» eppure realizzate con «fondi tutti o per lo più provenienti dalle casse dello Stato». Secondo la Corte pertanto «la distrazione del denaro è stata ovviamente possibile con un solo metodo: la collusione» e, «probabilmente (anche se non è oggetto di giudizio), qualcosa non ha funzionato nell’organizzazione della Prefettura, nei suoi controlli e nella vigilanza sulle attività e gli uomini».

Sempre secondo la Corte, «certamente accordo vi è stato tra tutti gli altri enti interessati e, prima ancora e più efficacemente, tra uomini a capo di quegli enti. Sacco era tutt’uno con Scordio, con i Poerio (Fernando e Antonio) e, inizialmente, con Angelo Muraca; e i Poerio hanno poi fruito di imprese di comodo col benestare e la diretta collaborazione della criminalità organizzata. Loro stessi sono divenuti la criminalità organizzata e hanno imbastito la frode». Una frode consistente in distrazioni di denaro e «dimostrata», per i giudici, perché Misercordia e Quadrifoglio (il catering dei Poerio) «sapevano esattamente quanti individui fossero presenti nel campo e a mensa (in questo caso molto spesso il 60% del totale) eppure le richieste di rimborso pro capite alla Prefettura sono state per numeri decisamente superiori, equiparabili al massimo esigibile (oltre 800 presenze)». Cresta sui pasti dei migranti, insomma, e che cresta. «Chiedere il rimborso di una bottiglia d’acqua, un panetto di burro, una razione di pollo o pasta più che di tanti altri beni e servizi per centinaia di ospiti fantasma per ogni giorno e per dieci e più anni rende la dimensione dell’affare illecito».

Dunque, spese superiori rispetto a quelle necessarie per soddisfare le esigenze degli ospiti. «La sussistenza di una vera frode – scrivono i giudici – emerge dal fatto che la Misericordia comunicava alla Prefettura che il conteggio delle presenze era fatto in base al numero dei pasti effettivi mentre in realtà si seguiva il criterio delle presenze. Spesso capitava che venisse inviato poco vitto per via del variare delle assenze. La Prefettura, dal canto suo, pur non disponendo di tutta la documentazione di rendiconto (fatture), a partire quantomeno dal 2011, non ebbe alcuna reazione».

Qualcosa, dunque, non funzionava nel sistema dei controlli. Quando si insediò alla guida della Procura di Catanzaro, Nicola Gratteri dovette sbattere i pugni sul tavolo per sbloccare alcune inchieste che si erano fermate proprio quando i tentacoli lambivano i livelli istituzionali. Ma ormai è passato troppo tempo e diventa più difficile provare la “collusione”. Ne è passata acqua sotto i ponti dalla maxi retata del 2017, e soltanto un avviso di conclusione delle indagini per un funzionario non apicale scatta dopo cinque anni.

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