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La domanda – “avremo una recessione?” – ruota intorno a una questione fondamentale: la spirale prezzi/salari. Con un’inflazione alta, la gente non è contenta: il potere di acquisto si erode e le famiglie cercano di risparmiare sulla spesa.
Si riducono le cosiddette spese discrezionali – viaggi, cinema, divertimenti, articoli di abbigliamento, ristorante… – e, più in generale, la fiducia cala. La risposta è, dal punto di vista del singolo, razionale. Se il mio reddito ‘compra’ meno di prima, per evitare il peggio, risparmio.
Il problema è che qui entra in gioco la cosiddetta ‘fallacia di composizione’, cioè a dire: quel che è giusto e comprensibile per il singolo individuo, diventa esiziale a livello della comunità, del Paese intero. Aveva già osservato Adam Smith che la produzione di «articoli di frivola utilità» è quel che «tiene in moto perpetuo l’industria dell’uomo». E ancora prima di lui Bernard de Mandeville, nella «Favola delle Api», aveva narrato le amare conseguenze che arrivano quando la gente diventa virtuosa e rinuncia agli «articoli di frivola utilità». Keynes diede dignità scientifica a queste intuizioni, dimostrando che il troppo risparmio toglie carburante all’economia, e «ogni volta che risparmiate 5 scellini, togliete un giorno di lavoro a un uomo».
Questo per quel che riguarda i consumi. E la riluttanza a consumare si porta dietro un’analoga riluttanza a investire: le imprese vedono che c’è meno domanda e quindi, razionalmente, rimandano gli investimenti in aumento della capacità produttiva. Anche qui, questa ‘razionalità’ danneggia l’economia, perché cala la domanda di macchinari e impianti, e questo aggrava la recessione. Fin qui, abbiamo descritto il normale meccanismo ciclico quando l’attività economica volge verso il basso.
Ma cosa c’entra tutto questo con la spirale prezzi/salari? C’entra, perché a evitare questa disgrazia del ciclo potrebbero intervenire le politiche economiche: la politica di bilancio e la politica monetaria. Il problema è che ambedue queste politiche sono in affanno. La politica di bilancio è in affanno perché stremata da deficit e debiti, in cui sono (meritoriamente) incorsi i governi nel terribile periodo della pandemia. Fortunatamente per i governi, la politica monetaria venne in soccorso, finanziando quella spesa in deficit comprando titoli pubblici (e non solo) a man bassa. Potrebbe fare lo stesso adesso per alleviare quella recessione che è – purtroppo – possibile, se non probabile? E qui entra in gioco la famosa spirale.
Come già detto qualche giorno fa (vedi “Il Quotidiano del Sud” del 3 maggio), se i salari rispondono agli aumenti del costo della vita, alimentano l’inflazione: un più alto costo del lavoro spinge le imprese ad aumentare i prezzi, già in tensione per il maggior costo delle materie prime. Ora, le Banche centrali hanno per fine statutario quello di tenere l’inflazione bassa, e, con una dinamica dei prezzi molto elevata (gli indici aumentano, per i consumatori, sulle due sponde dell’Atlantico, a ritmi poco sotto o poco sopra l’8%), le Banche sono in pratica obbligate ad aumentare i tassi di interesse e ad evitare di finanziare con nuova moneta i deficit pubblici, gettando così altro sale sulle ferite dell’economia. A meno che…
La domanda – “avremo una recessione?” – ruota intorno a una questione fondamentale: la spirale prezzi/salari. Con un’inflazione alta, la gente non è contenta: il potere di acquisto si erode e le famiglie cercano di risparmiare sulla spesa. Si riducono le cosiddette spese discrezionali – viaggi, cinema, divertimenti, articoli di abbigliamento, ristorante… – e, più in generale, la fiducia cala. La risposta è, dal punto di vista del singolo, razionale. Se il mio reddito ‘compra’ meno di prima, per evitare il peggio, risparmio. Il problema è che qui entra in gioco la cosiddetta ‘fallacia di composizione’, cioè a dire: quel che è giusto e comprensibile per il singolo individuo, diventa esiziale a livello della comunità, del Paese intero.
Aveva già osservato Adam Smith che la produzione di «articoli di frivola utilità» è quel che «tiene in moto perpetuo l’industria dell’uomo». E ancora prima di lui Bernard de Mandeville, nella «Favola delle Api», aveva narrato le amare conseguenze che arrivano quando la gente diventa virtuosa e rinuncia agli «articoli di frivola utilità». Keynes diede dignità scientifica a queste intuizioni, dimostrando che il troppo risparmio toglie carburante all’economia, e «ogni volta che risparmiate 5 scellini, togliete un giorno di lavoro a un uomo».
Questo per quel che riguarda i consumi. E la riluttanza a consumare si porta dietro un’analoga riluttanza a investire: le imprese vedono che c’è meno domanda e quindi, razionalmente, rimandano gli investimenti in aumento della capacità produttiva. Anche qui, questa ‘razionalità’ danneggia l’economia, perché cala la domanda di macchinari e impianti, e questo aggrava la recessione. Fin qui, abbiamo descritto il normale meccanismo ciclico quando l’attività economica volge verso il basso.
A meno che non siano convinte che l’inflazione di oggi sia un fenomeno temporaneo, e che la spirale prezzi/salari non verrà innestata. Andiamo allora a vedere cosa ci dicono i dati sull’andamento dei due rami della spirale.
Partiamo dall’Italia. Il grafico mostra che, per adesso, non c’è alcun segnale di risposta delle remunerazioni all’aumento dei prezzi, anche se, come si vede, la distanza fra le due variabili non è mai stata così grande come adesso. Lo stesso si può dire per l’Eurozona, dove, a fronte di un aumento dei prezzi superiore al 7%, la dinamica dei salari rimane sotto il 2%.
Naturalmente, ci sono dei ritardi fisiologici fra un‘inattesa impennata dell’inflazione e la risposta di stipendi e salari, specie in Italia e in Europa, dove le remunerazioni sono determinate in gran parte da contratti collettivi, le cui scadenze sono più o meno ravvicinate. Non vi è dubbio che ai prossimi rinnovi ci sarà una grande pressione per recuperare il potere di acquisto perso. Sarebbe bene, a questo punto, che nei rinnovi si proceda a durate annuali dei nuovi contratti, così da poter adattare salari e stipendi più rapidamente alle mutate condizioni dell’economia.
Là dove il pericolo di una spirale prezzi/salari è reale e incombente è in America, dove la maggior parte delle remunerazioni non sono contrattate collettivamente, e quindi la risposta dei salari è più sollecita (vedi grafico). E non è questa la sola differenza con l’Europa. In America l’attività economica va a pieni giri, il tasso di disoccupazione è ai minimi, per ogni disoccupato ci sono quasi due posti vacanti, e i nuovi sussidi di disoccupazione sono i più bassi da sessant’anni. Insomma, l’economia è surriscaldata, ciò che alimenta sia l’inflazione che i salari. Ed è allora normale, per non dire auspicabile, che la Federal Reserve aumenti – e continuerà ad aumentare – i tassi di interesse.
In conclusione, la spirale prezzi/salari è avviata al di là dell’Atlantico ed è bloccata in Europa, anche se, forse, non per molto. Se la recessione dovesse arrivare nel Vecchio continente, la Bce non procederebbe ad aumenti dei tassi-guida. Ma neanche potrebbe, a causa dei suoi doveri statutari in presenza di forte inflazione, intervenire a sostegno dei bilanci pubblici nella misura di quanto fatto nel recente passato.
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