Il Cristo che si affaccia sul golfo di San Leonardo di Cutro
5 minuti per la letturaCUTRO – Il racket sul turismo e l’usura imperversavano da 40 anni, anche dopo gli arresti messi a segno nell’ambito dell’operazione Malapianta, con cui la Guardia di finanza di Crotone aveva disarticolato, nel maggio 2019, i tentacoli della cosca Mannolo Trapasso Zoffreo Falcone, perché i titolari dei villaggi lungo un vasto litorale ma anche imprenditori e commercianti dell’area a cavallo tra le province di Crotone e Catanzaro continuavano a pagare ai familiari dei presunti affiliati ormai detenuti: adesso si sentono “liberati”.
Alcuni pagavano da 20 anni, ma i loro familiari pagavano dai 20 anni precedenti. E proprio un senso di “liberazione” ricorre con frequenza nelle rivelazioni delle vittime che, insieme agli sviluppi investigativi, hanno portato ad altre dieci misure cautelari (sette in carcere, due ai domiciliari e un divieto di dimora in Calabria).
Operazione “Jonica”, l’hanno chiamata le Fiamme gialle, che hanno anche messo a segno un sequestro di beni per due milioni. Non erano bastati gli arresti e le condanne (360 anni di carcere sono stati inflitti col rito abbreviato, ma pende il processo ordinario) e i familiari dei detenuti continuavano a vessare imprenditori e commercianti, ritenendo di esercitare una sorta di “diritto” di estorsione e usura. Le famiglie di ‘ndrangheta stanziate nel piccolo borgo che s’affaccia su un golfo incantevole, prima organiche alla “provincia” mafiosa di Cutro capeggiata dal boss di Cutro Nicolino Grande Aracri, dal 2009 avevano costituito un autonomo “locale” di ‘ndrangheta che, sia pur dipendente dal capocrimine ergastolano, imprimeva la sua cappa, secondo la ricostruzione dei pm della Dda di Catanzaro Domenico Guarascio e Paolo Sirleo avallata dal gip Matteo Ferrante, lungo la fascia costiera da Cutro a Sellia Marina, neutralizzando concorrenza e libero mercato.
Il clan sanleonardese è stato colpito a più riprese negli ultimi anni ma è con l’operazione Malapianta che è emerso il racket ultraventennale ai villaggi Serené e Porto Kaleo imposto dal boss Alfonso Mannolo e dai figli Remo e Dante: quest’ultimo, divenuto collaboratore di giustizia, ha contribuito a fare luce sulla spartizione dei complessi da vessare. Informazioni, quelle fornite dal pentito ai pm, che si saldano a quelle offerte dai titolari di cinque impianti turistici, ai quali ha fatto da apripista Giovanni Notarianni, titolare di Porto Kaleo, oggi testimone di giustizia. Ed è emerso un progetto estorsivo di vasta portata che riguarda, in modo sistematico, le strutture ricettive di una grossa fetta di litorale jonico. A ciascuna famiglia era affidato un determinato complesso turistico da cui ricavare illecitamente proventi tramite pratiche estorsive.
Così è venuta fuori innanzitutto l’emblematica l’imposizione del “pizzo” sui servizi di manutenzione del verde all’interno del villaggio Serenè dalle ditte individuali di Francesco Falcone e Domenico Scerbo che, rispettivamente, dal 2001 al 2016 e dal 2017 al 2019, con l’avallo del boss Mannolo e del figlio Dante, avrebbero ottenuto il pagamento di una cifra in contanti variabile tra 1.200 e 800 euro mensili. Imposizioni avvenute mediante minacce di morte.
Analogo scenario quello messo a nudo nel villaggio Sirio di Sellia Marina, dove il boss e un fratello poi deceduto avrebbero costretto Nicola Risatti, titolare della società Blu Hotel, affittuaria della struttura turistica, e, in seconda battuta, la famiglia Rotella, proprietaria del villaggio, rispettivamente dal 2002 al 2006 e dal 2006 al 2013, a consegnare 250mila euro.
Era un diritto di estorsione e usura quello che gli affiliati ritenevano di poter esercitare anche quando erano in carcere, e così si attivavano i familiari in libertà, le nuove leve, o presunte tali. Giuseppe Trapasso, figlio del più noto Vincenzo, condannato a otto anni per associazione mafiosa nel processo Borderland ma assolto in appello, da novembre avrebbe vessato Francesco Greco, gestore del bar Macfly di Cropani Marina, con la motivazione che bisognava sostenere i carcerati. Greco alla fine ha confermato ai finanzieri di aver pagato somme di 600, 700 euro consegnati materialmente in due tranche a Carmine Ranieri, stretto collaboratore di Giuseppe Trapasso.
Estorsioni anche attraverso la fornitura di materiali e manodopera: Felice Falcone e Fiore Zoffreo avrebbero costretto Gianpiero Caruso, titolare della società Euroturist gerente il villaggio Santa Monica a San Leonardo di Cutro, a consegnare 23mila euro euro annui (dal 2001 al 2018) nonché ulteriori 10mila euro attraverso un bonifico bancario eseguito mediante il pagamento di una fattura per lavori mai svolti. Imposizioni avvenute anche queste tramite minacce di morte.
Ancora, nei confronti della stessa azienda, dal 2012 al 2016, Dante Mannolo e un affiliato deceduto avrebbero imposto, sempre con minacce di morte, di avvalersi, per la fornitura del caffè, della ditta individuale di Pietruccia Scerbo, moglie di Mannolo, per circa 15 mila euro. Non certo da meno quanto accaduto alla società Aurum Triton, conduttrice del villaggio Triton di Sellia Marina, rappresentata legalmente da Francesco Orofino, al quale sarebbe stato imposto, da Alfonso Mannolo e Salvatore Giannotti, la corresponsione di un sovraprezzo applicato sul contratto di manutenzione edile stipulato con la società Il Sarago, riconducibile a Giannotti. Un sovraprezzo di 30mila euro pagati in contanti annualmente, in due tranche, tra il 2005 ed il 2017, per una somma complessiva di 390 mila euro.
C’era anche l’imposizione del servizio di guardiania: dai condomini del villaggio Alcioni, a San Leonardo di Cutro, Antonio Mannolo avrebbe preteso il pagamento di una quota annuale di 300 euro per nucleo familiare (dal 2003 al 2018), per un un introito estorsivo complessivo di 150mila euro. Il controllo del territorio era militare: sotto la lente delle sentinelle del clan finivano le auto “sospette”, quelle delle forze dell’ordine, ed erano periodiche le bonifiche dei luoghi chiusi, al fine di rilevare microspie in modo da neutralizzare indagini.
Contestualmente agli arresti, i militari hanno eseguito un sequestro preventivo di beni: i sigilli sono scattati su tre ditte individuali operanti nel settore della vendita del caffè, della vendita dei prodotti agroalimentari e dell’edilizia e sul 50% delle quote di una società a responsabilità limitata operante nel settore della distribuzione alimentare. Sequestrati anche 19 rapporti bancari, 6 beni immobili (1 terreno e 5 appartamenti); 6 autovetture.
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