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Philippe Donnet, CEO di Generali

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C’è una Francia che ci piace perchè è al fianco dell’Italia nell’Europa degli investimenti e del debito comune, della difesa, della politica estera e di bilancio europea. C’è una trama francese-italiana fatta di poteri manageriali autoreferenti che non ci piace per niente perchè brucia valore italiano e opera contro l’interesse nazionale, il caso di Generali è il primo in assoluto e più emblematico di tutti. Bisogna avere almeno l’intelligenza di comprendere che la lista a sostegno di Donnet è formalmente espressione del Cda ma sostanzialmente sostenuta dalla solita Mediobanca che per garantire il risultato non solo vota con il suo pacchetto di azioni ma addirittura ne prende in prestito un altro 4% dichiarando che la partecipazione in Generali è strategicamente fondamentale per Mediobanca

C’è una Francia che ci piace perché è al fianco dell’Italia nell’Europa degli investimenti e del debito comune, della difesa, della politica estera e di bilancio europea. Si muove con Macron nel solco nobile dei Delors che è quello di sviluppo solidale diametralmente opposto a quello egoistico-saccente dei Sarkozy. Appartiene all’idea anticipatrice degli Adenauer, dei Monnet, degli Schuman ma anche dei De Gasperi e poi dei Kohl, dei Prodi, dei Ciampi e, in modo speciale per il salvataggio e il governo dell’euro che è storia, di Mario Draghi. Per questo tifiamo senza se e senza ma per una schiacciante vittoria di Macron alle elezioni politiche francesi.

C’è, però, una trama francese-italiana fatta di poteri manageriali autoreferenti che non ci piace per niente perché brucia valore italiano e opera contro l’interesse nazionale, il caso di Generali è il primo in assoluto e più emblematico di tutti. Una trama ripetuta negli anni che altera nei fatti le regole del libero mercato, composta di cose grandi e piccole come la fiche “francese rivestita” che l’algido Jean Pierre Mustier, ex “padrone” di Unicredit e compagno di caccia di Donnet, attuale ceo di Generali, paga alla Mediobanca di Alberto Nagel qualche anno fa.

La paga per farsi assistere nella cessione dello scrigno globale del risparmio Lombardo-Veneto – quasi 90 anni di storia, duemila dipendenti in 28 Paesi del mondo, con un patrimonio gestito pari all’epoca  a circa 225,8 miliardi di euro tra America, Europa, Medio Oriente e Asia – alla francesissima Amundi, oggi controllata da Crédit Agricole, che con questa operazione diventa il primo gestore di asset management dopo i colossi americani. Ad assistere Unicredit nella più colossale operazione di spoliazione di risparmio delle regioni ricche italiane a favore delle fortezze francesi c’è allora l’immancabile JP Morgan che è la stessa banca d’affari che ha dichiarato ora di avere in mano il 7,52% della milanese Banco Bpm il giorno dopo che il Crédit Agricole Italia di Giampiero Maioli ha comunicato  al mercato di aver acquistato il 9,18% di Banco Bpm.

Ovviamente fonti francesi si affrettano a precisare che per la banca d’affari si tratta di operazioni di copertura per ragioni tecniche ma non possono smentire che l’Agricole intenda fare un’offerta per la maggioranza del business assicurativo di Banco Bpm. Siamo, cioè, alla vigilia di Amundi 2. Il punto è che il Paese deve fare i conti con una squadra bancaria, finanziaria e industriale su cui la Francia può contare in casa nostra: un esercito di uomini e posizioni costruite nel tempo, ognuna con una sua ragione e un suo profilo ma all’interno di un assetto di insieme che risponde a una regia non scritta né dichiarata ma assolutamente reale.

Di questa squadra di “ufficiali di collegamento” che non ci piace affatto,  che sanno stare bene al mondo, ce n’è uno che sta più in alto di tutti: si chiama Alberto Nagel, una vita divisa tra Londra e Milano. A differenza di molti degli altri ha i galloni di amministratore delegato e ha il “merito” di avere contribuito in modo decisivo come azionista di maggioranza relativa di Generali a ridurre una compagnia che venti anni fa era seconda solo ad Allianz ad essere ora metà di Zurich e Axa e un terzo di Allianz, sacrificando uomini del valore di Greco (che è l’artefice della crescita di Zurich) per figure nemmeno lontanamente comparabili come quelle del francese Donnet. O di avere aperto le porte di Mediobanca e della finanza italiana a Vincent Bolloré, esponente di un capitalismo predone francese, di gran lunga più predone del capitalismo di relazione all’italiana, che farà fare in Telecom a Cattaneo la stessa fine (mettendo anche qui vertici francesi) che si è fatta fare a Greco in Generali danneggiando in modo gravissimo due snodi strategici del capitalismo italiano.

A grandi linee il disegno politico parigino che muove gli ufficiali di collegamento italiani è il seguente: impossessarsi di parti sempre più estese e crescenti della grande distribuzione, dei brand della moda e del lusso, delle telecomunicazioni, dei media, dell’industria spaziale, di banche e assicurazioni; un settore dove c’è stata maggiore aggressività (per fortuna respinta) riguarda l’energia, per contrastare le ambizioni globali dell’ENI, e un occhio vigile riguarda gli armamenti, per ridimensionare Leonardo.

Sia chiaro, non è un programma francese di spoliazione dell’Italia, e, tanto meno, di condanna al declino economico, ma diremmo quasi di appropriazione secondo regole formali di mercato sempre inappuntabili di quella fabbrica e di quel prodotto italiani che loro non hanno, ma di cui si ritengono i primi al mondo nella capacità di fare branding avendo le munizioni finanziarie e il cliente.

Sarà un caso, ma il governo Draghi ha rafforzato come non mai i poteri del golden power in termini ostativi e preventivi che è in sé un salto di qualità dell’azione a tutela dei nostri primati industriali e finanziari. Attenzione, le manovre su Banco Bpm non ci piacciono affatto perché farebbero rientrare nell’orbita francese una banca molto importante invece per consentire a UniCredit di ripartire proprio dall’Italia su basi nuove globali rafforzate dopo la lunga stagione di spoliazione dei suoi tesori italiani condotta da Mustier. Sarebbe, però, addirittura diabolico, oltre che masochista, non cogliere in Generali la differenza strategica tra chi (lista Caltagirone) ha investito capitali propri e si presenta al giudizio dei mercati con una squadra di prim’ordine che ha indicato alla comunità finanziaria dove e come è possibile la crescita che non c’è stata e chi vuole continuare con gli stessi metodi a giocare con i soldi degli altri e il risparmio degli italiani.

Bisogna avere almeno l’intelligenza di comprendere che la lista a sostegno di Donnet è formalmente espressione del Cda ma sostanzialmente sostenuta dalla solita Mediobanca che per garantire il risultato non solo vota con il suo pacchetto di azioni ma addirittura ne prende in prestito un altro 4% dichiarando che la partecipazione in Generali è strategicamente fondamentale per Mediobanca. Al punto che al secondo posto della lista c’è il vice direttore generale di Mediobanca e, a seguire all’interno della stessa lista, c’è Lorenzo Pellicioli che ha interessi di residenza e di affari anche in Francia e che chiede ai De Agostini, di cui è stato espressione in cda, di mantenere il voto dei titoli ancorché li avessero venduti prima della assemblea. Che, di per sé, la dice lunga sul giudizio reale dei De Agostini sulla futura crescita di valore del piano di Donnet.

Noi ci permettiamo di ricordare a tutti che è in gioco l’indipendenza di un Paese. Troppo, per consentirsi il lusso di distrarsi.


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