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POTENZA – Una mafia tutta lucana, o soltanto un gruppo di delinquenti “comuni”, che hanno allacciato rapporti con le ‘ndrine più potenti della Calabria? L’antica questione è riaperta, e per scrivere la storia criminale degli ultimi vent’anni in Basilicata servirà un nuovo processo, che dovrà svolgersi a Salerno in Corte d’appello.
Bisognerà attendere il deposito delle motivazioni per capire la portata della sentenza della Cassazione, che ha annullato le condanne a carico dei 19 imputati per associazione mafiosa nel maxi-processo alla “famiglia basilisca”.
Ma il giorno dopo la decisione è chiaro a tutti che di fronte ai nuovi giudici non sarà una pura formalità, ma andranno riesaminati tutti gli elementi raccolti dall’accusa sull’esistenza della “quinta mafia”
I legali che erano presenti in aula mercoledì mattina, ovviamente soddisfatti, giurano che il relatore aveva evidenziato subito la sua perplessità sull’impianto della decisione che nel 2013 aveva confermato il teorema dell’antimafia lucana. Evidenziando un tratto comune di tutti i ricorsi delle difese, che avevano attaccato il ragionamento effettuato dai magistrati della Corte d’appello di Potenza. Un assioma per cui la mafiosità dei presunti componenti del clan sarebbe stata derivata dalla lunghezza dei rispettivi curriculum giudiziari. Senza evidenziare in concreto come si sarebbe manifestata: il terrore che avrebbero dovuto incutere su imprenditori e commercianti presi di mira; il «codice d’omertà» e le pene esemplari inflitte a chi osava violarlo.
Troppo poco, insomma, per mettere sullo stesso piano Gino Cosentino con un Bernardo Provenzano. A maggior ragione se si considera che sono rimasti fuori dal maxi-processo quasi tutti i fatti di sangue attribuiti agli scagnozzi del boss: a partire dal duplice omicidio dei coniugi Gianfredi, a Potenza, nel 1997. Un delitto confessato agli investigatori da due diversi collaboratori di giustizia, il melfitano Alessandro D’Amato e il potentino Antonio Cossidente, soltanto nel 2010, per cui all’epoca delle indagini sulla “famiglia tutta lucana” si guardava lontanissimo, verso sicari arrivati apposto dalla Calabria. Senza parlare dei morti della faida del Vulture, scatenata dalla costola melfitana del clan, subito dopo la sua disgregazione. Altro sangue rivendicato dallo stesso D’Amato, sempre nel campo dei nemici della nuova “famiglia” come gli storici padrini della mala lucana, legati ad altre organizzazioni criminali di fuori regione, che non si eravano voluti piegare davanti a loro.
Unica eccezione un attentato a colpi di fucile a canne mozze datato novembre del 1996, contro quello che sarebbe diventato il primo pentito dei basilischi, Michele Danese, “colpevole” di non aver voluto sfregiare sua sorella per aver tradito il compagno, ovvero Cosentino in persona.
Per l’attentato a Danese è stato condannato il solo Cosentino, che nel frattempo però era diventato un collaboratore di giustizia a sua volta, ma aveva sempre negato di essere stato il mandante dei sicari. Quindi è stato giudicato credibile quando ha spiegato la nascita e le regole del clan, e allo stesso tempo non credibile quando ha parlato degli spari contro l’ex cognato. Tanto per dare l’idea dei paradossi contenuti nella sentenza annullata dalla Cassazione che non sono sfuggiti alle censure delle difese. A maggior ragione dopo la revoca del programma di protezione per il boss, e le accuse del suo successore, Antonio Cossidente, che ha parlato anche di soldi, voti e relazioni pericolose. Aiutando gli investigatori a riprendere in mano vecchi fascicoli con intercettazioni dimenticate, come quella in cui l’ex vicepresidente della giunta regionale Agatino Mancusi, ricordava al candidato di ringraziare il luogotenente di Cossidente per il sostegno elettorale ricevuto. Altrimenti gli avrebbero «tagliato la testa».
Ma anche questo è rimasto fuori dal maxi-processo.
L’inchiesta sulla mafia “tutta lucana” risale a luglio del 1996, 4 mesi prima dell’attentato a Danese, quando a Potenza venne ucciso un poliziotto, Francesco Tammone, incappato in un incontro al rione serpentone tra alcuni maggiorenti del nascente clan. La loro fuga a Policoro consentì di scoprire «l’asse» esistente tra la mala del capoluogo e quella della fascia ionica, mentre le intercettazioni in carcere portarono elementi sia sullo spaccio di droga che sui progetti di egemonia criminale in regione.
Per l’accusa di associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti la Cassazione ha confermato la condanna decisa in Appello rinviando a Salerno solo per la rideterminazione della pena con l’applicazione dell’indulto.
l.amato@luedi.it
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