Giacomo Mancini con Bettino Craxi
2 minuti per la letturadi PIETRO MANCINI
VENTI anni dopo la scomparsa, Giacomo Mancini – “l’anima scomoda del socialismo italiano”, come il “Corriere della Sera” lo definì, il giorno dei suoi affollati funerali – è ricordato e rimpianto anche dagli avversari. Che, insieme a noi familiari, ma non alle autorità, hanno contribuito alla realizzazione della statua di Domenico Sepe, lo scultore che ha eseguito quella di Maradona.
Mio padre commise, certo, degli errori, ma quel caparbio e riservato deputato riformista del Sud (con me sempre affettuoso, mai burbero) riuscì a far comprendere che i mali del Mezzogiorno andavano attribuiti anche alla classe dirigente meridionale.
Il dirigente più vicino a Pietro Nenni, all’epoca dei governi di centrosinistra, dimostrò che alcune cose (dall’Università a Cosenza all’autostrada Sa-Rc, dalla vaccinazione antipoliomelite alla salvezza dell’Appia Antica dagli speculatori) si potevano realizzare, nei tempi giusti. E che, con impegno e senza il cappello in mano dei politici, la questione meridionale e le riforme possono uscire dai polverosi “libri dei sogni”. La sua guida del Psi durò solo 2 anni e non lo proiettò a ruoli più importanti che, secondo numerosi storici, avrebbe meritato.
Mancini fu un convinto assertore (uno degli ultimi) dell’autonomia della politica e del PSI, oltre che dalla DC e dal PCI, dai “poteri forti” allora molto più influenti di oggi. E pagò la sua fermezza con l’addio alla segreteria pre-Craxi, con pesanti attacchi, con le intercettazioni abusive delle telefonate e con violente campagne diffamatorie, non solo dei fascisti, che impiccarono la sua effigie, durante la “rivolta” di Reggio Calabria. Capì, in anticipo, le carenze e la crisi dei partiti, in primis del suo Psi, dirette da leadership autocratiche. Se Craxi avesse recepito qualche allarme (i meno giovani ricorderanno i manifesti, affissi a Cosenza: “Caro Bettino, non siamo d’accordo!”), forse, il Psi non sarebbe stato travolto dalla tempesta di Tangentopoli. E non sarebbero, troppo presto, usciti dalla scena dirigenti di valore, come Claudio Martelli, con il quale Giacomo mantenne sempre, anche nelle fasi più tempestose, un rapporto di amicizia e stima.
Da garantista convinto, difese Enzo Tortora e i dirigenti dell’Autonomia operaia, come Toni Negri e Franco Piperno, pur non condividendone le idee.
Dopo aver lasciato il Parlamento, non si ritirò in campagna, ma fece di Cosenza una “città europea”. E morì, da sindaco, l’incarico, che il suo caro amico, Francesco Cossiga, definì “il più utile e onorevole di tutti gli uffici importanti, che Giacomo, un genio della concretezza, ricoprì, in modo esemplare”.
Grazie a tutti, in particolare ai giovani, che vorranno approfondire il pensiero e l’attività politica, al governo e da primo cittadino, rimpianto, di Giacomo Mancini, un “guerriero senza spada, Con un piede nel passato e lo sguardo, dritto e aperto, nel futuro….”.
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