X
<
>

Share
5 minuti per la lettura

DICIAMOCI la verità: Pier Paolo Pasolini, oggi, si sarebbe tenuto decisamente alla larga da “Matera Capitale Europea della Cultura”. L’avrebbe messa al primo posto tra le città da escludere per girarci un film, tanto più un film come Il Vangelo. Questa Matera ormai riconosciuta, osannata e messa sugli altari da quella stessa idea di cultura contro cui, da cosciente don Chisciotte, aveva sempre combattuto. Alleandosi, in quella battaglia già persa, proprio con quella terra che serbava sì il fascino delle pietre eterne, ma anche quello degli occhi e delle mani dei “figli” di chi, un tempo, le aveva scavate con fatica e amore. Non gli piacerebbe la narrazione di Matera che passa da “vergogna nazionale” a Capitale della Cultura in sessant’anni. E non sarebbe certo contento se gli dicessero di essere stato, con quel film, uno strumento di questo grande salto. “Salto indietro” direbbe forse lui.
Dove gli uomini politici vedevano la vergogna d’Italia, lui, infatti, vedeva la grandezza d’Italia, l’oscura bellezza di un mondo al tramonto che ancora conservava qualcosa: uomini e luoghi che parlavano di uomini. Qualcosa che chiamava, sinteticamente, “umano”.
Esco con questa certezza dalla bella Mostra di Palazzo Lanfranchi, “Pasolini a Matera. Il Vangelo Secondo Matteo 50 anni dopo”, che il prossimo 25 gennaio chiuderà i battenti. Mi hanno detto questo le parole commosse di un video del rivoluzionario spagnolo Enrique Irazoqui (l’attore scelto per il ruolo di Cristo, non perché attore ma perché innamorato del proprio ideale, proprio come Pasolini vedeva Gesù), lui che, tornato a Matera nel giugno 2011, ricordava con un velo di tristezza: “I Sassi sono rimasti come prima, ma la gente che incontri per le strade è cambiata. Ora sono alti, mangiano bene. Non è più la gente di Diamante e Carbone che aveva colpito Pier Paolo, non è più la gente di allora”. Ebbene, uno strano scherzo del destino ha voluto che l’anno appena trascorso fosse quello della grande vittoria di “Matera 2019”, ma anche quello del cinquantennale del film. Con Pasolini a rovinare la festa, a ricordare, scomodo, quella Matera che lo aveva innamorato e che oggi, forse, non c’è più. A smascherare la contraddizione tra un luogo vero perché distante, non corrotto, e uno ormai vincente, noto, “conquistato”.
Ci rifletto nel dubbio. Forse quella contraddizione non è assoluta. Anzi, forse proprio in quelle radici che lui coglieva ha gettato le basi la vittoria di oggi: la capacità del fare, e del fare bene, e del fare insieme (Matera è stata premiata proprio per la “partecipazione”). E io stesso non voglio sputare fiato scettico su questa vittoria, come farebbe lui, forse con più coraggio. Lo sentirei effimero, dolorosamente inutile. Giro con questi pensieri in una città ormai stracolma per la “Prima” dell’attesissimo Presepe vivente. Piazza Vittorio Veneto è infighettata di luci e colori. Tutti fanno i selfie davanti all’albero illuminato per poter scrivere sui social: “Sono a #Matera”. E molti di loro andranno via da Matera senza neppure sapere quali siano, per davvero, i suoi luoghi più belli (leggasi Chiese, in special modo rupestri). Vedo tante bellissime luci e penso a Pasolini che direbbe di non farsi abbagliare. Solo due flussi di corpi contraddicono la direzione di quel viavai festoso e ubriaco nella città più amata del momento: i ragazzi che ancora fermano la gente con Lotta Comunista, per vendere la loro idea con il sorriso sulle labbra, derisi da passanti che per la gran parte neppure ce l’hanno, un’idea; o i ragazzi di Gioventù Studentesca (Comunione e Liberazione), i quali, mentre tutti sono in fila alle transenne per il Presepe, si fanno aprire una transenna a parte, controcorrente, per raggiungere non l’attrazione del momento ma l’attrazione di sempre: la chiesetta di San Giovanni (quanti turisti la vedranno?) per ascoltare la Santa Messa in un luogo magnifico dove il silenzio non deve essere chiesto perché si impone da sé.
Forse per loro, solo per loro, Ppp proverebbe un piccolo moto di simpatia ( delizioso contrappasso al suo rancore verso chiese e ai partiti), noterebbe i soli in direzione opposta al flusso unico del viavai. Li accarezzerebbe, tesi verso qualcosa forse illusorio ma almeno non ripiegati, in quel piccolo gesto controcorrente, al dio di tutti gli altri: il divertimento e il successo, oggi tanto luminosi a Matera.
Non so se abbia senso porla, ma già la sento tutta, quella domanda drammatica, ossimorica, che PPP avrebbe in cuore. Eppure non me ne vergogno, nel giornale che ha ospitato tante volte un pasoliniano dalle domande inutili come Andrea Di Consoli. Una domanda vuota, inconsistente, evanescente come quelle che faceva lui, eppure terribilmente scomoda: “Ma non è che forse, vincendo, abbiamo perso?” Chissà. Forse non avrebbe ragione del tutto, Pasolini. Eppure, se questa Matera vincente proverà ad ascoltarlo, questo “grillo parlante”, questo “guastafeste” che dice di non perdere un passato “vergognoso” ma autentico, chissà, forse si arriverà meglio al 2019. E soprattutto al giorno dopo, quando le luci della scena saranno spente, quando il viavai, se ancora ci sarà, non avrà più il sapore dolce dell’entusiasmo, ma quello acre della consuetudine. E bisognerà tornare a quei volti, a quel pane, a quegli uomini così privi di “cultura” (virgolette d’obbligo) da chiedere il miracolo a un rivoluzionario spagnolo vestito da Gesù. Chiedevano il miracolo, quei folli, senza l’illusione (oggi tanto in agguato) di non averne più bisogno. Restano ancora pochi giorni per la mostra. Andate a vederla. E fatevi turbare.

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE