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Luigi Bonaventura

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CROTONE – «Errare è un episodio, un segmento della propria vita, non la condizione unica e definitiva. Occorre invece aiutare ogni persona, con amore, ad andare oltre il proprio errore». Parole di Papa Francesco dalla prefazione al libro-intervista di Benito Giorgetta, sacerdote antimafia di Termoli che ha pubblicato un dialogo con il collaboratore giustizia Luigi Bonaventura, ex reggente della cosca di Crotone.

“Passiamo all’altra riva”, edito per i tipi di Youcanprint, è il libro-testimonianza, impreziosito non solo dalla prefazione del Pontefice, ma anche dalla postfazione di Luigi Ciotti, fondatore di Libera che, non a caso, parla di una «conversione morale» che si salda a «una forma di conversione civile», perché riguarda anche il «sentirsi cittadino, parte di una collettività».

Il riferimento è all’impegno di Bonaventura, che, insieme alla moglie Paola, ha costituito l’associazione “Sostenitori dei collaboratori e testimoni di giustizia”. Ciotti accenna anche alle falle del sistema di protezione, più volte denunciate dal pentito crotonese, così come fa anche l’autore, che veicola le istanze del popolo dei collaboratori e testimoni. Un popolo che «non chiede comprensione ma giustizia. Accoglienza e non distrazione. Addizione di risorse e non sottrazione, che impoverisce gli organismi preposti alla vigilanza». Perché «Nelle mani dello Stato ci sono vite umane che hanno diritto di vivere nella serenità come ogni cittadino».

Ma quello che rileva è soprattutto il racconto di un percorso, che è anche spirituale, di liberazione dall’oppressione della ‘ndrangheta. Chi nasce in famiglie mafiose ha la vita segnata, ma respirare la libertà è possibile. Attraverso la via della denuncia. «Occorre costruire stili diversi che si discostino da una mentalità infetta e deviata com’ è quella mafiosa. Non più “cosa nostra”, ma il “bene comune”», scrive Giorgetta. Ed è Bonaventura stesso, non più con il linguaggio asettico dei verbali, ma con uno stile più intimo, a spiegare la sua scelta. Da bambino soldato a uomo libero, ecco alcuni stralci del suo racconto, a tratti sofferto.

«Luigi Bonaventura era un bambino concepito e cresciuto per essere bambino soldato. Ricordo che le parole più usate erano: odio e istigazione all’odio. Come un ritornello sentivo sempre ripetere: ammazzare, ammazzare, ammazzare. Nasco in un periodo in cui la mia famiglia aveva già una piccola guerra con la famiglia Covelli. Dopo un anno, quasi due, dalla mia nascita, uccidono un mio zio: Ninì Vrenna, (Calogero) aveva l’età di 21 anni. Da allora sono stato ancora di più istigato alla vendetta. All’epoca faida voleva dire fine della guerra dopo la morte dell’ultimo maschio di una delle due famiglie che si combattevano».

E ancora: «Quando ero piccolino venivo addestrato a giocare con le armi, e io, in realtà, pensavo che fosse un gioco anche perché sapevo che pure gli altri bambini giocavano con le armi. All’epoca era una consuetudine. Io però non capivo la differenza tra le mie armi che erano vere e quelle degli altri che erano giocattolo. Era tutta una gara, una gara nel montarle, rimontarle, caricarle, cercare sempre di essere veloce, di superarsi, perché poi è quello lo stimolo che ci davano: cercare di essere sempre migliore del tuo predecessore o almeno cercare di eguagliarlo».

Come si vive da latitante, come avviene l’iniziazione, cosa significa nascere in una famiglia mafosa, ovvero essere «prigioniero di una subcultura» da tramandare ai propri figli, è sempre Bonaventura a spiegarlo. Ed è sempre lui a rievocare la sparatoria col padre del 19 settembre 2006, giorno peraltro del fatidico match Crotone-Juventus in serie B. «È difficile accettare che un padre abbia cercato di eliminarti però cerchi di comprenderlo sapendo che lui ha avuto un’infanzia peggiore della tua e che nelle logiche della ‘ndrangheta ha dovuto ricorrere ad una cosa del genere sia perché magari era indottrinato peggio di me, ma anche per proteggere gli altri miei familiari a cominciare dai fratelli, dagli zii. Avendo avuto quella reazione nei miei confronti, ha mandato un messaggio forte quasi a dire: se c’è un collaboratore in famiglia ci pensiamo noi, ma non vi avvicinate per vendetta a nessuno dei nostri familiari, altrimenti è guerra».

Infine, la scelta di una nuova vita, per dare un futuro ai propri figli, paragonata dall’autore alla semina in un bosco di querce. Una metafora che Bonaventura accoglie al punto da definirsi un uomo “felice”. «Io mi sento una persona felice quando cerco di rendermi utile per la società, per la collettività».

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