La Corte di cassazione
1 minuto per la letturaREGGIO CALABRIA – «L’ampiezza e la obiettiva rilevanza delle condotte di coinvolgimento dell’indagata nelle varie vicende imprenditoriali legate al padre» Carmelo, presunto boss, «e agli interessi della cosca, come descritti nelle convergenti» accuse «dei plurimi collaboratori di giustizia oltre che desumibili dall’inequivoco tenore delle conversazioni intercettate, giustifìcano» la qualificazione delle condotte «in termini di effettiva partecipazione ad associazione mafiosa».
Lo scrive la Corte di cassazione nella sentenza con cui lo scorso 25 gennaio ha rigettato il ricorso di Maria Rita Bagalà, avvocata aostana, contro la pronuncia del Riesame di Catanzaro, nell’ambito dell’inchiesta Alibante sulla ‘ndrangheta.
Il tribunale calabrese, il 19 ottobre 2021, aveva accolto la richiesta della Dda, che ne chiedeva la custodia cautelare, scattata con la pronuncia della Suprema corte.
Per il gip, che nella primavera 2021 aveva disposto gli arresti domiciliari, l’avvocata agiva come «concorrente esterno in associazione mafiosa». Secondo il Riesame invece c’era «una piena compenetrazione dell’indagata nella struttura associativa»: per questo ha ritenuto necessario il «regime carcerario, non superabile a fronte dell’assenza di elementi indicativi di un allontanamento dal contesto associativo».
Nel ricorso, Bagalà lamentava anche la «omessa considerazione del fatto che da oltre dieci anni la stessa risiede in Valle d’Aosta, facendo solo sporadici rientri in Calabria».
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