Un sequestro dei carabinieri (foto d'archivio)
3 minuti per la letturaCUTRO (CROTONE) – L’ultima zampata il mostro dai mille tentacoli con testa a Cutro, la piovra capeggiata dal super boss Nicolino Grande Aracri del quale è stato smascherato un falso tentativo di collaborazione con la giustizia, l’ha fatta sentire in riva all’Arno, almeno stando alle risultanze di un’inchiesta della Dda di Firenze che, nello scorso aprile, aveva portato, tra l’altro, al suo arresto: adesso scatta un sequestro di beni per cinque milioni di euro per Francesco Lerose, residente a Pergine, in provincia di Arezzo, titolare di uno stabilimento a Levane per lo smaltimento dei rifiuti.
É ritenuto vicino al clan Grande Aracri oltre che ai Gallace di Guardavalle. Per questo Dia, carabinieri del Noe e forestali di Firenze, nell’ambito di un’attività congiunta e coordinata dalla Procura del capoluogo toscano, hanno apposto sigilli al suo patrimonio in esecuzione di una misura di prevenzione disposta dal Tribunale fiorentino su richiesta della Procura.
Un patrimonio che comprende vari terreni e abitazioni nelle province di Arezzo e Pisa, e nel Crotonese, conti correnti, società e auto facenti capo all’indagato e al suo nucleo familiare.
Parliamo dell’inchiesta che ha travolto la Toscana, fino a toccare uno degli uomini più vicini al presidente della Regione, Eugenio Giani, come il suo capo di gabinetto Ledo Gori, descritto dagli inquirenti come l’anello di congiunzione tra il malaffare e la politica. Gori, indagato per corruzione, sarebbe entrato in rapporti stretti con alcuni membri dell’Associazione Conciatori di Santa Croce sull’Arno che avrebbero fatto pressione per riconfermarlo dopo il mandato con Enrico Rossi. Gori avrebbe pertanto intrattenuto rapporti con imprenditori che la magistratura ritiene collegati alla ‘ndrangheta. Uno dei filoni investigativi ha portato all’operazione “Keu”, che oltre ad essere il nome in codice per il blitz di aprile fa è la sigla per le ceneri di risulta della combustione dei fanghi conciari che diventavano il “rilevato” della strada, lo strato collocato sotto l’asfalto, con conseguente rischio di inquinamento anche delle falde acquifere.
Il trasferimento dei fanghi sarebbe avvenuto in un impianto di depurazione a Pontedera, gestito da Lerose: là sarebbero stati miscelati abusivamente e poi inviati nei vari cantieri. Alla ditta si rivolgevano, in perfetta buona fede, grandi aziende come Chimet, ma anche Pavimental, società del gruppo Autostrade. La vicinanza ai Grande Aracri sarebbe data dal fatto che i Lerose si sarebbero messi a disposizione per riciclare e occultare i proventi delle imprese di Gaetano Lerose, loro cugino e presunto affiliato alla cosca, attraverso un meccanismo di false fatturazioni per operazioni inesistenti per 550mila euro negli anni dal 2017 al 2019.
E’ appena il caso però di rilevare che il gip fiorentino Anna Liguori escluse l’aggravante mafiosa per Lerose ma la riteneva fondata per il coindagato Nicola Chiefari, ritenuto contiguo al clan Gallace di Guardavalle. L’inchiesta ricostruisce anche l’ascesa della famiglia Chiefari nel Valdarno aretino dove si stanziò, nei primi anni Novanta, dopo l’uccisione di Domenico Chiefari, padre di Nicola e, quando era in vita, uomo di fiducia del capocosca Vincenzo Gallace, attualmente detenuto. Antonio Chiefari è l’altro figlio di Domenico ed è oggi titolare di Idrogeo, ditta di movimento terra finita sotto la lente.
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