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“C’è del marcio in Danimarca”. Si! Proprio così! Sembra esserci un retro-pensiero in molti sullo sviluppo del Mezzogiorno. Come si può spiegare diversamente come molte normative vengano interpretate in senso restrittivo?
Che spesso addirittura si pensa di ritardare la messa a terra degli investimenti nel Mezzogiorno per salvare o ritardare l’aumento del debito pubblico o quello del deficit annuale?
Come non si capisce che il ritardo della messa a regime dei porti di Augusta e Gioia Tauro, porta un danno enorme al Paese e consente l’organizzazione dei nostri competitor, che siano il Pireo o TangerMed? O qualcuno pensa che in tal modo si possa evitare di danneggiare Trieste e Genova?
O tutte le opposizioni all’alta velocità ferroviaria che colleghi Palermo con Berlino, con calcoli costi/benefici fatte a bocce ferme, che non si sono fatte per nessun’altra opera pubblica, e che portano inevitabilmente a ritenere la realizzazione delle opere non conveniente.
O che ci si ponga di traverso rispetto ad un progetto, quello del ponte sullo stretto di Messina, già appaltato e con l’inizio dei lavori già avvenuto, e che ritorna come nel gioco dell’oca sempre al punto di partenza, con commissioni inutili che sprecano risorse dello Stato e che ritardano quello che è un must per il Paese e per l’Europa, se vuole intercettare i traffici di un Mediterraneo ridiventato centrale, nel quale l’Italia può svolgere un ruolo di primo piano visto che in esso è concentrato il 27% dei servizi delle 500 linee mondiali che si occupano di movimentare i container.
Sembra che non ci siano soltanto le note forze politiche che frenano l’assegnazione delle risorse al Sud ma anche una burocrazia complessiva, soprattutto romana, che interpreta leggi e regolamenti in senso restrittivo per evitare che molte delle agevolazioni pensate per il Sud poi trovino la possibilità di diventare azioni. Pensate per esempio al ritardo che hanno avuto le nomine dei commissari delle Zes, molte delle quali ancora non effettuate. Come anche le Ferrovie dello Stato quando si tratta di opere da realizzare nel Sud ritardino gli investimenti anche avendo a disposizione le somme relative.
Sarà perché la burocrazia romana trova più difficoltà a ritardare ciò che è stato deciso per il Nord, perché ha degli interlocutori più attenti e sempre sul pezzo di quanto non siano quelli del Sud, il fatto è che se guardiamo i tempi di realizzazione di opere o anche le determinazioni che riguardano il Sud ci si accorge che si accumulano ritardi più evidenti per tali aree. E spesso quando vi sono dei vantaggi che vengono pensati per attrarre investimenti nel Sud del Paese, nel giro di qualche tempo tali vantaggi o vengono eliminati o vengono estesi a tutta la Nazione, per cui poi risultano impraticabili finanziariamente e quindi annullati. Quasi ci fosse una volontà precisa di evitare che l’attrazione di investimenti funzioni.
Un esempio recente è quello relativo al credito d’imposta di cui ha parlato ieri il nostro Direttore Napoletano nel suo editoriale. Il problema della non cumulabilità tra il credito d’imposta per gli investimenti 4.0 con il credito d’imposta per gli investimenti nel Mezzogiorno erogati per compensare le diseconomie del territorio e favorire gli investimenti privati. Non si capisce che vi sono una serie di diseconomie del Mezzogiorno che se non vengono superati con vantaggi che li attenuino portano gli investitori a non scegliere quelle aree perché non più convenienti?
È evidente che se devo scegliere dove localizzare i miei investimenti scelgo una zona già infrastrutturata, con una criminalità organizzata messa all’angolo e con utilities a buon livello. Condizioni che trovo al Nord del Paese. Possibilmente la scelgo pure con un costo del lavoro più basso e con vantaggi fiscali sugli utili di impresa rilevanti, cosa che trovo in molti dei paesi dell’Europa dell’Est.
È evidente che se tutto questo non viene considerato sarà difficile, come peraltro sta avvenendo, che arrivino investimenti dall’esterno dell’area privati, per cui le politiche fondamentali con le quali si dovrebbero creare quei posti di lavoro che mancano, quei 3 milioni di cui ormai tutti si sono convinti, per portare il rapporto popolazione occupati a quello delle realtà sviluppate del nostro Paese, come l’Emilia-Romagna, non funzionano più. E tutta la costruzione delle Zes diventa solo teoria senza alcuna conseguenza operativa reale.
In realtà tutto questo non avviene per caso ma perché si ha la sensazione che una parte del Paese non voglio fare nulla per cambiare la situazione coloniale nella quale si trova il Mezzogiorno oggi.
Perché forse pensa che tutto sommato una tale condizione favorisca e sia funzionale alla crescita del Nord. Non capendo invece che il nostro Paese senza mettere a regime il Mezzogiorno non riuscirà a mantenere i tassi di crescita equivalenti o superiori a quelli dei nostri partner europei, cofondatori dell’Unione.
Come può superarsi un tale ritardo culturale e convincere una parte, che mostra molta ritrosia, che senza il Sud il Paese va a fondo é complicato da capire. A parole tutti si dichiarano a favore della messa a regime del 40% del territorio e di un terzo della popolazione del Paese.
Ma i fatti non sono mai conseguenti lasciando il vero obiettivo di una classe dirigente, che si dichiara tale ma che in realtà poi non lo è affatto, che è quello dell’unificazione economica del Paese dopo quella politica, assolutamente non raggiunto a oltre 160 anni dall’Unità d’Italia. Ma l’unica strada da percorrere è che gli intellettuali della Magna Grecia impongano tale visione perché è quella giusta.
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