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POTENZA – Quando parla del lavoro fatto – obiettivi e strategia – usa sempre il noi. La prima persona plurale «è questione di approccio». Il suo è aziendale, prima ancora che aziendalista. Giampiero Maruggi, direttore generale del più importante ospedale lucano, viene da un mondo altro, dall’economia. La sfida in sanità l’ha affrontata pensando alla produttività «Dal volto umano però, altrimenti non ha senso». Nel senso che le persone sono il nodo di tutto. 

«Bisogna mettere sul territorio quello che serve alla medicina di prossimità – dice -, ciò che aiuta i cittadini. Poi, però, sulla specializzazione e sulle strutture di eccellenza servono condizioni specifiche».
L’ultimo caso, quello del Punto nascite in Val d’Agri: chiusura e spostamento dell’utenza a Potenza, con polemiche a corredo.
«Credo che quelle polemiche siano state strumentali. Il punto nascita della Val d’Agri era sotto gli standard indicati dal ministero, secondo cui servono almeno 500 nascite all’anno: se ne praticavano la metà. Bisogna chiedersi se ha senso tenere in vita un punto nascita sotto standard e poco sicuro».
E il San Carlo come risponde al cambio dei flussi in ingresso?
«Partiamo, per esempio, dall’accoglienza. Per le mamme della Val d’Agri abbiamo messo in piedi alcune iniziative, come l’ospitalità in una struttura convenzionata per due familiari, per due notti, compresi i pasti. A settembre esporteremo nel bacino sanitario Val d’Agri il modello “vicini dalla nascita” approntato al San Carlo».
Un modello che ha cambiato un intero sistema di lavoro sulla maternità.
«A inizio anno mi sono imbattuto in un dato preoccupante: le nascite al San Carlo erano in calo, troppo rispetto al trend nazionale demografico. Che fare? La cosa più giusta è stata chiamare i nostri professionisti e metterli attorno a un tavolo. Ognuno di loro aveva un’idea, un suggerimento che non era mai riuscito a concretizzare. E poi, vivendo il reparto, le pazienti e le famiglie quotidianamente, hanno una consapevolezza reale di ciò che accade e dei bisogni».
Così li ha messi attorno a un tavolo. Poi?
«Sì, anche pressando, ammetto. Sono nate così le scelte di offrire gratuitamente il corso preparto, l’eliminazione della coda per il ticket e la card di sconti in negozi convenzionati. In pochi mesi abbiamo rivoluzionato a costo zero il sistema interno, costruendo un modello che ci anticipa qualche dato positivo e ha coinvolto anche i privati. Le nascite nel mese di giugno sono in incremento del 22,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. A luglio l’incremento è del 37%. Anche depurando il dato dalle nascite in arrivo dalla Val d’Agri, il segno più resta».
Tutto merito della strategia?
«È chiaro che il calo demografico generale sta sempre lì, e un ragionamento più serio potrà essere fatto a fine anno con i dati completi. Ma sono convinto che con “vicini dalla nascita” abbiamo fatto il percorso dei salmoni: abbiamo risalito la corrente. Abbiamo contrastato il calo dell’utenza fidelizzando».
Una logica tipica del management privato, non trova?
«Il senso è: sentirsi azienda, vincere una sfida. Abbiamo dimostrato che l’approccio industriale alla sanità funziona e serve a innalzare la qualità del servizio pubblico. Avere un approccio manageriale, che permette di coinvolgere i privati, senza rinunciare al valore pubblico, è una scelta funzionale».
Lei viene dal mondo della finanza. Che cosa significa gestire un ospedale come un’azienda?
«Al San Carlo significa colmare un gap che era proprio il non sentirsi azienda. Si coltivavano appartenenze di reparto, ma non di sistema. Abbiamo provato a invertire la rotta, abbiamo tracciato la strada, pur con ancora tanto lavoro da fare. Iniziative come “vicini dalla nascita” servono a cementare il senso di appartenenza».
Sta dicendo che è finita la stagione delle guerre interne al San Carlo?
«Il San Carlo è una realtà complessa, in cui lavorano duemila persone, più l’indotto. È il risultato di una sommatoria di gestioni diverse e di diverse stagioni politiche della nostra regione. Questi due anni e mezzo sono stati entusiasmanti, ho lavorato in assoluta autonomia, senza ingerenze. Non so cosa sia accaduto in passato, ne ho letto, posso immaginare. Io vengo da un altro pianeta, che non è quello della sanità. Per quello che mi riguarda vale una regola: chi fa il bene dell’azienda è il mio miglior amico. E in generale, ogni sbaglio è mia responsabilità, per i buoni risultati ha invece fatto bene l’azienda».
Torna sempre sulla spinta alla risorsa umana.
«È l’unica strada utile: servono tecnologia, specializzazione, fondi, ma la svolta è investire sulle persone».
Su che cosa vorrebbe lavorare di più?
«Una carenza strutturale del San Carlo è nel modello organizzativo. Credo dovremmo lavorare di più sul modello di produzione, dalla gestione delle attrezzature al personale, per costruire nuovi vantaggi ai cittadini».
Non è certo un progetto a breve termine.
«Molte cose fatte in questi anni daranno risultati tra parecchio tempo».
A proposito di offerta, le convenzioni con altri centri di eccellenza sono una scelta o una necessità?
«Entrambe. Non attiviamo collaborazioni perché il San Carlo è carente, ma perché strutture come questa non possono essere autoportanti. Il solipsismo sanitario porta a delle sclerotizzazioni. Contemporaneamente, però, bisogna evitare il neocolonialismo sanitario. Pensi all’accordo con l’università di Verona sul pancreas: lì si fanno 300 interventi all’anno, da noi 20. Anche loro hanno interesse a lavorare con i nostri team, possono per esempio acquisire una epidemiologia territoriale diversa. Quindi, è corretto dire che non abbiamo bisogno di collaborazioni perché i nostri professionisti sono bravi, ma sarebbe una risposta dal fiato corto».
Una cosa di cui è particolarmente orgoglioso?
«La sfida aperta sulla robotica. Con l’acquisto del robot Da Vinci, fatto tra l’altro con fondi interni e chiudendo il bilancio in utile, è cambiato un intero modello di lavoro».
Come funziona?
«Per ora la robotica funziona in quattro settori: urologia, chirurgia generale, ginecologia e otorino. Ognuna di queste branche potentine ha una partnership con una equivalente struttura di altissimo livello nazionale, dove il Da Vinci è utilizzato da tempo. Così, il circolo che si crea è di grandissima formazione permanente, di ricerca, specializzazione, risultati. Abbiamo persino liste d’attesa».
Una difficoltà da risolvere al più presto?
«La carenza più grave è sul personale: servono risorse. Ci sono norme regionali sul turn over molto vincolanti. Finora hanno permesso alla sanità lucana di non collassare, ma adesso deve cominciare una nuova stagione di investimenti sulle risorse umane. Il rischio, altrimenti, è l’invecchiamento della classe professionale. Serve, invece, un vivaio. In questi anni ho avuto modo di incrociare professionalità straordinarie tra i nostri ragazzi».
E poi le risorse economiche…
«Anche sulle risorse economiche bisogna cambiare approccio. Soldi non ce ne sono e saranno sempre meno. Dobbiamo attivare nuove strade di fundraising, guardando a programmi come Horizon 2020. E il ruolo dei privati, anche nelle piccole cose, resta fondamentale».
La sanità sostenuta dal basso?
«Anche, almeno su alcuni fronti. A settembre presentiamo la Fondazione San Carlo 1810: nascerà con fondi privati e sarà una fondazione aperta, il patrimonio potrà incrementarsi nel tempo con l’apporto di organizzazioni o cittadini. La logica è un po’ quella anglosassone, il pubblico puo fare tanto ma non tutto. Per questo l’idea è che avere accanto una fondazione servirà a favorire le iniziative della consulta del volontariato o della stessa azienda ospedaliera».
Da dove arriveranno i soldi?
«Penso a fondazioni bancarie o organizzazioni con scopi compatibili al nostro. Ma il vero gol sarebbe la partecipazione di singoli cittadini, dipendenti, pazienti. La fondazione servirà a lavorare su tre fronti: umanizzazione sanitaria, facilitazione dell’alta formazione dei nostri ragazzi, recupero della storia del San Carlo. Che significa poter guardare al futuro». 

@saralorusso10

 

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