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Le elezioni in Libia in calendario il 24 dicembre erano già fallite ancora prima dell’entrata in scena mercoledì sera delle fazioni armate di Tripoli. Non c’era bisogno di nessun tipo di golpe. A questa scadenza nessuno ormai credeva più, visto che anche l’Alta commissione elettorale libica aveva già annunciato il rinvio della pubblicazione della lista definitiva dei candidati presidenziali.

Che non ci sarebbero state elezioni lo si capiva da un pezzo. Annusando nell’aria il fallimento, si era dimesso tre settimane fa l’inviato dell’Onu Jan Kubis che non aveva nessuna intenzione di trasferirsi a Tripoli a seguire il processo elettorale come gli era stato ordinato.

“Eserciterò le mie funzioni dalle capitali europee”, aveva detto, una presa di posizione inaccettabile che ci dice a quale livello di cialtroneria sia scesa la diplomazia Onu.

Il suo posto è stato di fatto preso dalla consigliera speciale delle Nazioni Unite, l’americana Stephanie Williams, che mercoledì era proprio a Misurata dove sta discutendo anche con i leader dei gruppi armati. Senza di loro qui non si combina nulla e gli americani ne sanno qualche cosa visto che l’11 settembre 2012 hanno perso l’ambasciatore Cristopher, ucciso, insieme alle sue guardie del corpo, nel consolato Usa di Bengasi dalle milizie islamiste. Una vicenda tutta sotto la responsabilità dell’allora segretario di stato Hillary Clinton che con Blair appoggiò Sarkozy nell’attacco alla Libia che dieci anni dopo misuriamo in tutto il suo disastro, pagato in realtà soprattutto dai libici e dall’Italia, sia in termini umani che economici, di migrazioni e instabilità.

In Libia contiamo sempre meno. Lo si è visto anche in queste ultime ore. Lo cogliamo nell’istantanea che fotografava mercoledì pomeriggio alla Farnesina un sorridente e rilassato Di Maio con la ministra degli esteri libica Najla al Mangoush. In quel momento le milizie libiche Al Samoud già si preparavano a sfilare con le tecniche per la città per circondare la sede del governo. Cose che capitano a Tripoli: la mattina decolli da ministro, atterri la sera e rischi il posto.

A far esplodere la tensione tra le varie fazioni armate è stata la decisione del presidente del Consiglio presidenziale, Mohammed al Menfi – in qualità di Comandante supremo delle forze armate – di sollevare dal suo incarico il capo del distretto militare di Tripoli, Abdel Basset Marwan, vicino a potenti milizie locali, e di nominare al suo posto il generale Abdel Qader Mansour.

La scelta di silurare Marwan era stata dettata dal fatto che era considerato troppo legato al periodo della guerra contro il generale Khalifa Haftar ma è stata duramente contestata dalle milizie di Tripoli che lo ritengono una sorta di garante delle loro posizioni. Il nuovo comandate Mansour è invece legato alla 444ma Brigata capeggiata da Mahamoud Hamsa seguace dell’islam salafita in contrasto con le altre milizie di Tripoli. Le ragioni di Menfi di sollevarlo dall’incarico trovavano probabilmente ispirazione esterna: la 444ma Brigata avrebbe un rapporto molto stretto con la Turchia, intervenuta militarmente nel 2019 per fermare il generale Haftar. E questo ha fatto incendiare la situazione. In poche parole alcuni di questi esponenti politici libici sono dei leader di “cartone”, pilotati da fuori e tenuti sotto tiro dalle milizie.

Ma chi è il leader della Brigata al-Samoud, Salah Badi? Badi è un misuratino nella lista nera del Consiglio di sicurezza dell’Onu dal 2018 per aver più volte tentato di rimuovere dal potere l’allora Governo di unità nazionale di Fayez al Sarraj. Badi, che detesta l’americana Williams, è un singolare personaggio: in settembre aveva annunciato di voler rivelare il luogo della tomba dove è sepolto Muhammar Gheddafi insieme al figlio Mutassim linciati e uccisi alla Sirte il 20 ottobre 2011. Una tomba che pesa assai visto che il figlio di Gheddafi, Seif al Islam, è uno dei canditati alla presidenza e diverse tribù sono ancora legate alla memoria del Colonnello.

In realtà Badi si chiama Salah al-Din Omar Bashir ed era, prima di ribellarsi al regime, un ufficiale dell’aereonautica di Gheddafi, noto anche all’Italia perché legato al clan Al-Dabbashi, la famiglia che con il sostegno dell’Italia di Marco Minniti allora ministro dell’Interno, ha governato Sabrata in cambio di un sostanziale blocco delle partenze dei migranti. Questa città, 70 chilometri a ovest di Tripoli, è sempre stata uno degli snodi principali del traffico di esseri umani diretti in Europa. Quello dei migranti è il nervo sensibile: pochi giorni fa a Tripoli, in segretezza, la San Giorgio ha consegnato al governo una centrale elettronica finanziata dall’Ue, e destinata alla Guardia Costiera, ovvero alla banda della Tortuga libica.

Badi più che tentare un golpe, in una Tripoli piombata al buio, ha dato soltanto il colpo di grazia a una campagna elettorale imperniata attorno alla sfida fra il generale Khalifa Haftar, il figlio del colonnello Seif al Islam Gheddafi e il premier “sospeso” Dbeibah.

Cosa accadrà adesso in Libia? Magari niente, in fondo quasi tutti hanno pensato in queste settimane che fare elezioni era più pericoloso che annullarle. E poi pensate che figuraccia per le grandi potenze occidentali che ammazzarono il Colonnello se vincesse le presidenziali il figlio di Gheddafi, un ricercato dell’Onu.

Qui in Italia dobbiamo smettere di ricevere francesi, americani e inglesi come alleati, a meno che non facciano ammenda dei loro errori.

Invece sapete che fa l’amico Macron? Come presidente di turno dell’Unione europea si prepara a dare lo stop ai cosiddetti movimenti secondari” dei migranti. In poche parole volta di nuovo le spalle all’Italia e condanna il nostro Paese a diventare sempre di più il campo profughi del continente.


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