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L'auto assaltata con il bazooka per uccidere Antonio Dragone

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CUTRO (CROTONE) – Era in auto col nonno, il boss Antonio Dragone, nell’auto blindata Lancia “K” speronata da un commando armato di bazooka che, il 10 maggio 2004, finì il vecchio capo bastone in una scarpata di campagna, nella località Vattiato, dove sono ritagliate le “dune gialle” rievocate da Pasolini in suo storico reportage su Cutro (ma era una citazione kafkiana): ma quel giovane, Antonio Ciampà, a cui qualche mese dopo, il 23 settembre di quell’annus horribilis, nella guerra di mafia che imperversava a Cutro ammazzarono pure il padre, Gaetano, è stato pure lui nel mirino della cosca capeggiata dal capo crimine Nicolino Grande Aracri, rivale storico di Dragone per l’uccisione del quale è stato condannato in via definitiva all’ergastolo in quanto mandante.

Ad eliminare Ciampà, che oggi ha 33 anni ma era un ragazzino quando scampò all’agguato teso al nonno, avrebbe dovuto essere Donato Lorusso, esponente di vertice del clan lucano Martorano Stefanutti, già condannato in via definitiva per l’estorsione all’ex patron del Crotone calcio e titolare dell’impresa dei rifiuti Salvaguardia ambientale Raffaele Vrenna.

Ne parla il pentito Giuseppe Liperoti nelle carte dell’inchiesta che nei giorni scorsi ha portato all’operazione Lucania Felix, che ha ribadito la saldatura tra la cosca potentina e quella cutrese già emersa con l’operazione ‘Ndrangames. Del resto, il “papello” rinvenuto nella disponibilità di Lorusso, con i rituali di affiliazione e le cariche della ‘ndrangheta, serviva, secondo la ricostruzione della Dda di Potenza, a legare le cosche lucane ai Grande Aracri di Cutro e il coinvolgimento negli agguati da tendere in Calabria confermerebbe gli stretti rapporti tra i due sodalizi criminali.

Al pentito lo avrebbe detto il cugino Salvatore Romano, genero di Ernesto Grande Aracri (fratello di Nicolino), arrestato nell’operazione scattata qualche giorno fa con l’accusa di essere stato il mandante della tentata estorsione a Vrenna. Romano, uno che prima di imparentarsi col clan era un «invisibile», nel senso che «lavorava», era preoccupato perché «non pratico di guerre».

«C’era in atto un mezzo progetto per uccidere Giampà Antonio (è un errore di trascrizione, perché il cognome è Ciampà, ndr) – è detto nel verbale allegato alla richiesta cautelare dei pm Gerardo Salvia e Anna Gloria Piccininni – figlio di Gaetano, già ucciso, che è la famiglia avversa a noi e lui, Romano, mi diceva “vedi che mio suocero… tu sai come dobbiamo muoverci…gli uomini ci sono… sono quegli amici del suocero mio… quelli di Potenza scendono, però noi dobbiamo fargli trovare magazzino, armi e tutto”».

Un’azione di fuoco col supporto dei potentini era stata programmata forse per neutralizzare eventuali vendette, perché quel ragazzo poteva rappresentare un pericolo per i Grande Aracri: oggi ha 33 anni, dicevamo, ma non ne aveva neanche 17 quando, secondo la Dda di Catanzaro, e anche secondo la Corte di Cassazione, che nel 2019 ha confermato in via definitiva la condanna a 10 anni e sei mesi di reclusione, commise un omicidio a Cutro.

Vittima Salvatore Blasco, imputato del processo Scacco Matto che, quattro giorni dopo la scarcerazione per scadenza dei termini di custodia cautelare, appena mise il naso fuori dall’uscio di casa, trovò la morte. Era il 22 marzo 2004. Per questo delitto e i connessi reati in materia di armi, essendo minorenne all’epoca dei fatti, Antonio Ciampà fu giudicato separatamente dai coimputati Giuseppe Ciampà, suo fratello, Antonio Dragone junior, nipote omonimo del boss, e Giovanni Oliverio, le cui pene sono già passate in giudicato.

Dopo la condanna inflitta in primo grado dal Tribunale per i minorenni di Catanzaro, Ciampà era tornato a piede libero; e ai suoi nemici non sfuggiva certo che era il nipote del boss Dragone, insieme al quale, a bordo di un’auto Lancia “K” blindata, si trovava quando il vecchio capomafia fu assassinato. Ciampà era nell’auto contro la quale fu puntato dai killer un bazooka per costringere il nonno a tentare un’inutile quanto drammatica fuga in un burrone.

Allo stesso circuito criminale è da ricondurre, sempre secondo gli inquirenti, l’uccisione del padre del ragazzo, Gaetano Ciampà, freddato nel settembre 2004 forse perché intendeva riorganizzare il clan Dragone. Ma nella guerra, a quanto pare, era previsto il coinvolgimento dei lucani. «Potenza sarebbe disposta ad aiutarci».

«Nella persona di chi?», chiedono gli inquirenti a Liperoti, che a quel punto fa il nome di Donato Lorusso, uno molto vicino a Ernesto Grande Aracri tant’è che si presentò con un orologio “Trilogy” come regalo di nozze al matrimonio di una figlia del fratello del super boss. Il clima, dopo l’operazione Aemilia che aveva decapitato il clan Grande Aracri, era questo, del resto. «Siamo rimasti fuori Romano e io, detenuto agli arresti domiciliari…c’era un certo timore perché dall’altra parte ci sono tutti i ragazzi, figli, nipoti di Gaetano Ciampà, una famiglia avversa…stavano approfittando… inzierà sicuramente qualcosa e Romano aveva intuito questo… aveva paura essendo non pratico di guerra… veniva tutti i giorni a trovarmi, ho capito che cercava conforto… ribadiva che si era incontrato con certi di Potenza che erano disposti a scendere e noi dovevamo dare l’appoggio di case e macchine… perché mio zio gli dieva dal carcere “vedete di fare il fatto “mangia e duormi”». “Mangia e duormi” è il nomignolo della famiglia Ciampà.

«Il suocero mi ha mandato a dire di fare il fatto di Antonio, dobbiamo farlo subito perché si rischia che qualcuno ci rimette la pelle». Tra i killer, Liperoti indica Lorusso anche perché «chiedeva armi» e «ha pure portato armi giù…fucili kalashnikov… e questo risale al 2009». Un progetto, quello dell’uccisione del giovane Ciampà, che sarebbe stato «attuale» fino al 2017, a dire di Liperoti, che sarebbe stato consultato da Romano perché «avendo partecipato alle due guerre di mafia sa come io mi posso muovere – racconta il pentito – quali magazzini o case strategiche all’inizio del paese, di quali persone ti puoi fidare, chi ti può dare una casa per ospitare gente di fuori».

Liperoti aveva pure suggerito di far rubare a Crotone, e non a Cutro, l’auto del commando: «Vediamo di nasconderla in un garage, e quando è… rompo gli arresti domiciliari».

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