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«PARLARE, parlare, parlare. Tirare fuori tutto, le paure, i dubbi, il dolore, i perché. Il tutto deve essere affrontato con coraggio dagli adulti, con molta schiettezza, essendo diretti. Il loro silenzio sarebbe intollerabile in questo momento». Paolo Crepet, psichiatra, sociologo, educatore, saggista, autore nel 1994 di “Le dimensioni del vuoto. I giovani e il suicidio”, quello che è forse ad oggi, ancora, l’unico libro in Italia sul tema, ha pochi dubbi, dopo un fatto profondamente traumatico, come può essere il caso del ragazzo di 14 anni che a Ruvo di Puglia, si è lasciato cadere nel vuoto dalla finestra della sua classe, la prima cosa da fare è parlare, «non si può, non si deve fare finta di nulla, i ragazzi macineranno la cosa e non devono essere lasciati soli. La scuola, il corpo docente, il “mondo adulto”, deve farsi sentire, essere presente, devono inventarsi qualcosa, ma devono, devono, ascoltare i ragazzi, lasciarli sfogare. Tra loro ci potrebbe essere qualcuno che sente lo stesso peso, la stessa solitudine e non può essere abbandonato, come troppo spesso succede, solo nella sua vulnerabilità».

Professore da quando ha scritto il libro ad oggi, cosa è cambiato?
«Per certi versi mi sembra che le condizioni si siano aggravate. Molto si accanisce sugli adolescenti, al di là della classica crisi adolescenziale che è pandemica, per usare un termine decisamente abusato, i ragazzi e le ragazze, sono più vulnerabili oggi, la loro è un’età vulnerabile. Lo sappiamo tutti, lo vediamo, e il periodo che abbiamo e stiamo attraversando lo ha messo in evidenza in modo tragico. Qualunque neuropsichiatra infantile, che lavori in reparto, sa che sono aumentate le condotte suicidarie. La condotta suicidarla non è e non può essere interpretata come una specifica forma di patologia psichica ma come il sintomo più tragico che questa società si ostina a rimuovere dalla propria coscienza: le diverse forme del disagio e dell’inquietudine giovanile, ovvero la condizione esistenziale di una intera generazione».

Ci sono dei segnali, qualcosa che possa far capire che una persona, un ragazzo è in una crisi che sta passando il limite?
«Non è un fulmine a ciel sereno, ed è l’unica speranza che abbiamo. Da quando un ragazzino o una ragazzina comincia a pensare al di suicidio e poi lo fa, passa un tempo e questo, tra virgolette, sempre rigorosamente tra virgolette, è l’unico strumento che abbiamo, perché se fosse un atto impulsivo e compulsivo: stop. Non avremmo nulla a cui attaccarci. Dobbiamo capire, non è che stamattina sono entrato a scuola felice, contento, poi mi hanno dato quattro e mi sono buttato dalla finestra. Questo non esiste. Nasce sempre da più lontano.

Il vaso pieno è una cosa, la goccia che lo fa traboccare un’altra. Dico questo anche per scagionare dalla responsabilità gli insegnanti, perché in questo momento capisco anche i sensi di colpa dei docenti, altrimenti diventa un’ansia, o peggio, una angoscia tragica, ovunque: Ho dato quattro e una persona ha perso la vita. Naturalmente parlo in generale, mi si tolga dall’imbarazzo di commentare un fatto di cui non so nulla, se non la cronaca appresa da letture di giornali, ripeto parlo in generale. Diciamo che lo schiaffo del papà, la ragazzina che ti lascia, il quattro ad un compito, sono gocce che fanno travasare vasi già pieni. Scuola, famiglia, preti, social, chiunque abbia a che fare con l’adolescenza va allertato.

Un sintomo classico è il cambiamento d’umore, questo va seguito, capito, analizzato. Non per mettere la croce su mamme, papà, zie e nonni, ma un drastico cambiamento d’umore non va sottovalutato. È un dato, una spia. Più grave è il liberarsi delle cose. Ad esempio, ho un motorino che desideravo da tempo e all’improvviso lo regalo ad un amico, senza un motivo. O lasciare il gruppo, allontanarsi dalle amicizie, isolarsi, l’apatia, queste sono tutte sentinelle che vanno monitorate. E ripeto, bisogna parlare, scuoterli questi ragazzi, fare cose insieme, non essere accondiscendenti con il loro desiderio di isolamento, non lasciarsi soli. Ultimo e per me importantissimo, non bisogna psicologizzare, non se ne abbiamo a male i miei colleghi, ma a volte, a quell’età lì, può avere effetti più negativi che positivi».

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