Scott La Faro
5 minuti per la lettura«I CALABRESI, tra gli italiani, hanno la fama di essere testardi e Scott La Faro lo era a tutto tondo».
È l’inciso che Gene Lees, monumento della narrazione del jazz mondiale, usa in un suo scritto per descrivere Scott La Faro, uno dei più grandi talenti che la musica “blu note” abbia mai conosciuto, scomparso prematuramente a soli 25 anni nel 1961 a causa di un incidente d’auto.
Per troppo tempo, davvero troppo, il genio di Scott La Faro è stato lontano dai riflettori del grande pubblico, ma uno scritto straordinario di Vincenzo Staiano ci restituisce il ritratto artistico e umano di un immenso musicista dalle origini italiane. Ma non solo, il libro di Staiano, dal titolo “Solid, quel diavolo di Scott La Faro” edito da Arcana, dipinge sullo sfondo della sua tela una saga familiare segnata dall’emigrazione e dalla voglia di ricominciare, una famiglia profondamente legata alle sue origini calabresi.
Sì, perché la storia dei La Faro parte da Siderno tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. È riscatto, speranza e dignità, lontani un oceano da casa, in una terra che poi diventerà patria, in un luogo, gli Stati Uniti, da dove si odono gli echi di due guerre mondiali che sussurravano di un’Italia affamata e umiliata, e imbrattavano gli italiani d’America come “persone da evitare”. Ma Rocco La Faro, nato a Cannitello e poi spostatosi a Siderno dove faceva il sarto e dove ha incontrato la moglie, Maria Carmela, aveva forza di volontà, e in un lampo è saltato al di là del mare, imbarcandosi per una nuova vita e una nuova speranza su una nave che portava il nome giusto: Vittoria. New York era la meta, ma dopo qualche tempo ci fu il Massachussets e infine l’Ontario, a Geneva. Lì nasce Rocco Joseph, una grande passione per la musica e le bande di quartiere e un detto, semplice e pragmatico: “Se una cosa non la sai fare bene, fai un favore a tutti, non la fare”. Era un mantra quella frase per Rocco Joseph detto Joe, e quel mantra lo trasferirà ai figli, Scott ed Helen La Faro.
Scott viene su bene, ammaliato dalla musica e determinato a lasciare il segno. È un bel ragazzo, somiglia a Steve Mc Queen, e suo padre lo avvicina al jazz e lo porta ovunque si possa sentire musica dal vivo.
“Solid”, il libro di Vincenzo Staiano, è una calamita, ricostruisce attraverso le dichiarazioni pubblicate dalla sorella di Scott, che le ha raccolte dagli amici e dai colleghi del musicista, la carriera del precoce genio dal sangue calabro. Ma fa di più Staiano, seguendo la biografia Helen La Faro, e, instaurando con lei un rapporto quasi “confidenziale”, riesce a trasmetterci pathos, quello per l’artista dal talento folgorante e quello per una famiglia legata alle sue origini calabresi che, nonostante si sia trapiantata da due generazioni negli Stati Uniti, rimane ancorata ai ricordi dei racconti dei nonni, legata a quegli odori di feste e cibo, commossa nel ricordo di quelle sensazioni di comunità, quando a Siderno per la fiera si portavano gli animali in vista sulla spiaggia e in centro c’era il grande mercato. È uno spaccato di storia, di vita, di Italia. Ma dentro c’è il fuoco del jazz che brucia, quello fatto dagli eletti di questa musica, e Scott La Faro era tra questi eletti.
E non lo dice la sorella Helen, o l’autore del libro Vincenzo Staiano, no, a consacrare Scott La Faro tra gli Dei immortali del Jazz sono i suoi amici e colleghi, gente del calibro di Bill Evans che per sei mesi, dopo la morte di Scott La Faro, non suonerà perché sconvolto. Sono Eddie Gomez, Ornette Coleman e addirittura Miles Davis a “dirci” quanto quel biondo ragazzo dal dna calabro abbia influenzato il jazz e cambiato il modo di suonare il contrabbasso.
Sì, perché, forse ancora non lo abbiamo detto, ma La Faro era un contrabbassista. Secondo molti ed autorevoli musicisti fu colui che rese determinante il contrabbasso in una formazione jazz. Suonò al fianco di Sonny Rollins, Stan Getz, Steve Khun, Charlie Parker e Tehlosious Monk per citare alcuni dei più grandi, perché anche lui era tra i più grandi. Il racconto di Staiano ci porta dentro la nascita del jazz per come lo conosciamo oggi, c’è la Atlantic Records il “Blu Note”. È quasi un road-movie che attraversa gli anni ’50 spostando Scott La Faro e il gotha della musica su e giù per gli Stati Uniti d’America e non solo, a suonare nei club che hanno fatto storia. In quegli anni nasce e non morirà mai la leggenda di Scott La Faro.
«Non mi piace guardare indietro, perché l’essenza vera del jazz è farlo ora». Sono le parole proprio di La Faro quando nel 1960, a neppure 25 anni, era considerato un innovatore e genio della musica. La ricostruzione di Staiano è certosina, e mentre osserviamo questo ragazzo e il jazz che irrompono nel mondo, sullo sfondo c’è la guerra, la bomba atomica e la storia che ci portiamo dietro. E, sempre, ci accompagna quel fil rouge che è la malinconia che qualsiasi emigrante, o figlio di emigrante, si porta dentro. Perché le origini rimangono cucite addosso, i racconti dei nonni sono fotografie indelebili.
Come indelebile è la breve e luminosa vita di Scott La Faro, una vita che conosciamo grazie alla ricostruzione e alle testimonianze della sorella Helen e oggi anche grazie al lavoro di Vincenzo Staiano che, oltre a portare avanti con coraggio e determinazione un miracolo come il Festival Jazz di Roccella Jonica, ci emoziona con questo racconto che è uno spaccato di storia e di orgoglio calabrese.
Resta adesso una nuova speranza, mentre il mondo, specie quello del jazz, riscopre il talento di Scott La Faro, sarebbe utile, anzi consigliabile, che anche le istituzioni trasferiscano alle nuove generazioni l’orgoglio di essere calabresi attraverso la storia della famiglia La Faro e l’affermazione del genio di Scott.
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