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TARANTO – Tutto sospeso, in attesa della decisione della Corte di Cassazione sull’istanza di rimessione del processo, per trasferirlo a Potenza, presentata dai difensori di una quindicina di imputati: dopo tre ore comprensive di due camere di consiglio, il gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli ha aggiornato al 16 settembre prossimo l’udienza preliminare del procedimento a carico dei vertici dell’Ilva per il disastro ambientale che sarebbe stato provocato in 18 anni dalle emissioni inquinanti del Siderurgico.

Sospesi i termini di custodia cautelare (tre “fiduciari”, così definiti dalla Procura, della famiglia Riva sono ancora agli arresti domiciliari, misura che sarebbe scaduta il 9 settembre prossimo) e di prescrizione, da rifare le notifiche per tre imputati. Ieri solo appello degli imputati; per le costituzioni di parte civile se ne riparlerà dopo l’estate.

 Udienza in un clima quasi surreale. Dopo quattro anni, e cinque procedimenti penali riuniti, il caso-Ilva non approda nelle aule tradizionali di un tribunale ma, per ragioni logistiche, nella palestra del comando provinciale dei vigili del fuoco, modificata per accogliere giudice e cancelliere (su un palchetto) e una platea di avvocati e legali di parte civile assiepati come in un affollato convegno forense.

Tutto questo, a porte chiuse come prescrive la legge, alla periferia della città, mentre dall’altro capo le ciminiere dell’Ilva continuano a segnalare che la produzione di acciaio fa il suo corso, anche se i fumi vengono schermati dalle nubi minacciose che in tarda mattinata porteranno pioggia e un temporale. 

Sembra un processo lontano anni luce dalla città, eppure è il processo voluto dalla città, con le decine e decine di esposti che operai, parenti di lavoratori morti per malattie polmonari, associazioni ambientaliste hanno fatto ammassare sui tavoli della Procura diretta da Franco Sebastio. Lui, che con altri quattro pm ha diretto le indagini, mantiene la solita cautela e, prima di entrare in aula, si dice «sereno» per la decisione che dovrà prendere la Cassazione sulla richiesta della difesa di trasferire il processo.

Fuori dai cancelli c’è la Taranto che non si arrende, quella dei famigliari di chi dall’Ilva ha ricevuto, in questi anni, salario e veleni. «La fabbrica uccide, la gente capisca che non è uno scherzo» è l’amaro sfogo di Stefania Corisi, 34 anni, moglie di Nicola Darcante, carpentiere Ilva morto a 39 anni il 16 maggio scorso per un carcinoma alla tiroide che gli era stato diagnosticato sei mesi prima. «Mi aspetto che mio figlio non sia l’ennesima vittima in nome del Pil e del profitto» ricorda Amedeo Zaccaria, padre di Francesco, operaio morto il 28 novembre 2012 dopo essere caduto in mare al passaggio di un tornado, mentre era all’interno della cabina di una gru.

«Chiediamo giustizia – dice – la giustizia che merita un ragazzo di 29 anni che aveva appena cominciato a vivere». Quella frase, “Vogliamo giustizia”, è la stessa che i parenti delle vittime hanno inciso sulla maglietta bianca mostrata oggi a due passi dall’aula di udienza.

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