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Domenico Gnoli, Il grande letto azzurro (1965)

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LA NOZIONE di arte contemporanea degli anni della mia formazione, che coincidono con quelli delle prime performance di Marina Abramovic e con la mitizzazione europea di Joseph Beouys, di Christo e, per parte americana, di Andy Warhol e nella sempre più espansiva affermazione della Pop Art fino a Roy Lichtenstein, si incrina agli inizi degli anni Ottanta con improvvisi elementi di disturbo introdotti negli organismi vitali della produzione delle avanguardie.

Sembra difficile uscire dagli schemi autodistruttivi che, in Italia, fanno capo all’arte povera, incoronando personalità come Giuseppe Penone e Janis Kounellis; in Austria, all’actionismismo performatico che porterà ai riti sacrificali di Hermann Nitsch e alla evirazione fatale di Rudulf Schwarzkogler. E invece, agli inizi degli anni ottanta, alcuni segnali annunciano una palingenesi della pittura che veniva esercitata da alcuni sopravvissuti come un vizio, un esercizio antistorico e maniacale, spesso confuso con l’iperrealismo, come nei casi esemplari di Pietro Annigoni, Riccardo Tommasi Ferroni e Mario Donizetti (episodici esempi di antimodernismo).

La più clamorosa affermazione di un ritorno alla pittura contro le tendenze artistiche prevalenti, in ogni direzione, fu, proprio nel 1980 la mostra, nel cuore della Biennale, completamente inattesa, di Balthius. Da molti anni non si era mai visto niente di simile. Fu l’intuizione del direttore, il critico d’arte oggi dimenticato Luigi Carluccio, e sembrò sconvolgere consolidate abitudini e rituali dogmatici, che avevano dominato incontrastati fino a quel momento. Nell’ambito dell’editoria stava iniziando l’ avventura di una rivista d’arte senza precedenti, FMR , che avrebbe consolidato una nuova sofisticata visione dell’arte, anche contemporanea, attraverso la rivalutazione anche di episodi marginali ed eccentrici. Fu proprio in quella sede che trovarono spazio un artista nuovissimo, da me subito proposto a Palazzo Grassi a Venezia, Luigi Serafini, con la invenzione del monumentale  “Codex Seraphinianu”, i cui effetti continuano ancora oggi a diffondersi, e un grande maestro della generazione precedente, coetaneo degli esponenti celebrati delle avanguardie, sopra ricordati: Domenico Gnoli, che oggi si celebra finalmente a Milano alla Fondazione Prada.

Uno strano caso di rimozione, dopo la precoce scomparsa, nel 1970, a 37 anni e la sola attenzione critica del sempre autonomo Luigi Carluccio, e mia con la pubblicazione di una grande monografia introdotta da Italo Calvino e pubblicata da Ricci. Ricordo due episodi: un incontro, a distanza con Carluccio, alla prima edizione di Arte fiera di Bologna, nel 1974, con l’avviso a noi giovani adepti, da parte di Renato Balilli, teorico e critico delle avanguardie, con un tono moralistico e preoccupato, in quegli anni di contestazione del capitalismo, quegli anni di velleitaria rivoluzione: “State lontani: quello è un critico di arte commerciale”. Un marchio d’infamia, nell’illusione di stare dalla parte di un’arte pura, incontaminata, intimamente sovversiva.

L’avviso poteva apparire ingenuo, ma indicava una frontiera e uno scontro critico che si faceva ideologico. D’altra parte gli artisti figurativi avevano sofferto un embargo fin dal 1949, con il fallimento del gruppo dei  “Pittori moderni della realtà” e da lì erano iniziati i tempi bui per la figurazione, con eccezioni non riconosciute o ghettizzate, sulle quali io mi sono soffermato nel volume recente sul  “Novecento, da Lucio Fontana a Piero Guccione” (editore la Nave di Teseo).

Emblematico è anche un secondo episodio: un repertorio di vent’anni di mostre in Italia, pubblicato nel 1970, dove non c’era traccia di Domenico Gnoli, morto proprio quell’anno. Rimozione? Intolleranza, pregiudizio? Fatto sta che la miopia e la disattenzione della critica avevano colpito un artista originalissimo che si era mosso fuori dei canoni precostituiti e che, oggi, è dopo de Chirico l’artista italiano con le quotazioni più alte sul mercato internazionale, tra i quindicine i venti milioni di dollari.

Il riconoscimento del mercato affianca Gnoli agli artisti italiani di maggior successo, e senza oscillazioni di fortuna di quegli anni: Lucio Fontana, Alberto Burri, Piero Manzoni, Enrico Castellani. Leggendo questi nomi, a fianco di quelli degli esponenti dell’arte povera, è evidente che Gnoli appartiene a un’altra storia ed esprime una diversa concezione dell’arte . Dipinge enormi chiome notturne, immensi letti su cui potrebbe sdraiarsi un gigante.  “Ricorda Gulliver a Brobdingnag, quando incontra un contadino più alto di un campanile? Swift constata: ‘I filosofi hanno ragione di affermare che ogni cosa è grande o piccola solo in rapporto a qualcos’altro’ ”.

Siamo nel 1964, quando Domenico Gnoli pronuncia queste parole. Il processo di isolamento e di amplificazione determina negli oggetti uno straniamento che li rende quasi irriconoscibili, soprattutto se riportati in un contesto reale. Ecco allora che le grandi tele di Gnoli sono come oggetti misteriosi, immagini astratte per troppa fedeltà, come quando, ingrandendo al microscopio i segni sulla pelle della mano, o una qualunque minuscola porzione di carta o legno o stoffa, vediamo qualcosa che non ha più relazione con il dato di origine e diviene una carta geografica, una terra vulcanica, un’architettura imprevedibile.

L’alterità si produce per accostamento di medesimi oggetti in diverse proporzioni. Avvicinandosi, ci si avvicina al segreto delle cose, alla loro essenza. Per Gnoli  “le cose ordinarie in se stesse, ingrandite per l’attenzione che si dedica loro, sono più importanti, più belle e più terribili di quanto avrebbero potuto renderle qualsiasi invenzione o fantasia”.

In tal modo la realtà viene elusa per farsi pura essenza, assoluto. Dio: come in una pala d’altare a fondo oro.


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