Il Palazzo di giustizia di Bari
3 minuti per la letturaUn anno, forse due, senza la possibilità di lavorare, per ottenere il riconoscimento di invalidità, parziale o totale. Sono almeno seimila i procedimenti che ogni anno finiscono sul tavolo dei giudici del lavoro di Bari, per l’autorizzazione agli accertamenti tecnici preventivi, preludio di riconoscimento tanto auspicato da parte dell’Inps. Cosa accade a Bari? Che una buona parte delle visite mediche, effettuate dalle commissioni dell’istituto di previdenza, si conclude con un “no” alla richiesta di invalidità. Una stretta, se ci riferiamo agli ultimi anni, che va di pari passo ai numerosi accertamenti condotti sui casi di finti invalidi e indebite percezioni di indennità.
E dunque, accade che chi non riceve risposta positiva, come da prassi si rivolge ad un legale che a sua volta chiede al giudice un accertamento tecnico preventivo, una sorta di revisione sullo stato fisico del richiedente. Il dato che allarma, allora, è l’elevato numero di richieste che, pur suddivise tra i magistrati che compongono la sezione lavoro, si trasforma in una mole di pratiche difficile da smaltire in tempi rapidi.
Di conseguenza, i tempi si dilatano e si stima che per ottenere una “omologa”, e cioè l’autorizzazione a “rivedere” la decisione dei medici, trascorrano in media 15 mesi. Si calcola anche, peraltro, che nell’ottanta per cento dei casi di revisione, l’invalidità venga poi comunque concessa. Il tutto nella totale impotenza degli avvocati, incastrati tra l’incudine e il martello. In sostanza, nell’80 per cento dei casi, servono un paio d’anni per ottenere quello che poteva essere concesso in prima istanza. Un dato che, ovviamente, confligge con il pugno duro del primo accertamento.
Il fenomeno, che rischia ormai di incancrenirsi, è di fatto il contraltare rispetto ai numerosi tentativi di truffa ai danni dell’Inps scoperti dalla guardia di finanza, che proprio nelle scorse ore ha sequestrato a Bari e nella provincia Bat beni a 109 persone, indebitamente destinatari di reddito di cittadinanza. Si tratta di persone condannate in via definitiva, nell’ultimo decennio, per associazione mafiosa o per reati commessi con il metodo e finalità mafiose, e loro familiari. E dunque, come prevede la legge, non aventi diritto al sussidio, erogato dall’Inps. Intanto, allora, quelli che soffrono di patologie e chiedono di essere “sostenuti” dall’istituto di previdenza con il riconoscimento dell’indennità, attendono. Ma non solo.
Le cose si complicano grazie ad una norma, emanata il 24 dicembre 2007, la cui applicazione è invece recentissima, dopo due sentenze della Cassazione. E l’ha comunicata proprio la Direzione generale dell’Inps ai patronati che assistono una buona fetta di cittadinanza. Dal 14 ottobre scorso, «l’assegno mensile di assistenza sarà liquidato – si legge – fermi restando i requisiti di legge, solo nel caso in cui risulti l’inattività lavorativa del soggetto beneficiario». Il tutto supera anche l’altro requisito, e cioè il limite di reddito di quattromila euro, finora vincolante.
E quindi, provando a tirare le somme, la trafila che attende una persona afflitta da patologie e che necessita di sostegno, è lunga ed estenuante: innanzitutto deve passare dal vaglio della commissione medica dell’Inps e attendere l’esito. In caso di rifiuto, può chiedere ad un avvocato un accertamento tecnico preventivo, ma deve attendere che venga fissata l’udienza, per poi finire nel lunghissimo elenco di richiedenti. Tempo stimato: quindici mesi, in media, a volte anche più.
Nel frattempo? Non può e non deve lavorare, pena la decadenza dell’eventuale indennità. Ancora un ostacolo: chi l’ha ricevuta e sta lavorando, deve restituire tutto? Un dilemma al quale, per ora, non esistono delle risposte.
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