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I Sassi non sono Matera. Per scoprire la vera anima della città, forse, bisogna voltare le spalle agli arcaici insediamenti rupestri e incamminarsi lungo altri tracciati. E ritrovare ad esempio, disseminati tra i resti di una periferia che non ha fatto a tempo a svilupparsi come avrebbe voluto, i reperti di un’umanità assai meno antica ma che, al pari di quella, è capace di parlare un linguaggio universale, a tutti comprensibile. Sono i giganteschi capannoni industriali in cui gruppi di uomini, appena scampati alla miseria degli antichi tuguri, hanno affrontato e addomesticato, anni fa, le macchine di un mondo che dovette apparire loro nuovo e carico di speranze. Luoghi, anche quelli, ricchi di memoria e non meno gravidi di suggestioni: come sa bene Mimmo Centonze, l’artista materano che fu scoperto, quasi per caso, da Vittorio Sgarbi e che a soli 35 anni può esibire un curriculum che annovera, tra l’altro, la  partecipazione, ripetuta, alla Biennale di Venezia (mentre il Corriere della Sera e il Mondo economico lo citano come uno dei primi cento artisti contemporanei sui quali conviene investire).

In uno di quei capannoni (che per iniziativa della Soprintendenza è diventato sede del Laboratorio di Restauro), in via Libertà nella zona Paip, Centonze ha allestito, nell’ottobre scorso, una mostra formidabile per dimensioni e per impatto scenografico. Le sue opere, calate attraverso funi d’acciaio dal soffitto in lamiera, puntellano la scena alla stregua di affreschi: mosaici illustrati di una chiesa (proprio nel senso di comunità) sconsacrata dal tempo; e di una religione, quale in fondo è stata l’industrialesimo, ormai in declino. E infatti, spiega Centonze, “questo capannone ha l’impianto di una chiesa, una chiesa post industriale a tre navate”. Una chiesa, continua l’artista, in cui le luci fanno capolino attraverso aperture improvvise che illuminano i moderni fedeli “coinvolgendoli in un’esperienza che vuole metterne a nudo la coscienza”. “L’allestimento delle circa 60 opere (delle più di 70 opere in totale considerando quelle esposte nell’altra sede del Museo di Palazzo Lanfranchi) – è scritto nella presentazione della mostra – è posto su più binari visivi e fa sì che il visitatore della mostra sia rapito da un affascinante rincorrersi del fronte e del retro delle opere, sospese nello spazio del capannone in un disarmante e sincero svelarsi dei supporti sui quali sono state dipinte: tela, tavola e ferro”.

Questa mostra che fu realizzata, su impulso del soprintendente ai Beni artistici e storici della Basilicata, Marta Ragozzino, per durare fino alla fine dell’anno non è stata più chiusa. L’idea è anzi quella di farla vivere ancora, o meglio di farla rivivere, attraverso uno scambio creativo con altre arti, altre parole. Nasce così “Amici dei capannoni”, una serie di eventi il primo dei quali si inaugura domani, alle ore 20,30, protagonista lo scrittore e giornalista di Rai 1 (dove conduce il programma “Uno Mattina caffè”) Guido Barlozzetti. Titolo: “Capanne, capannine, capannoni”. “Si tratta – spiega Centonze – di uno spettacolo teatrale inedito, con un solo protagonista: lo stesso Barlozzetti. Tutto si svolgerà tra le mie grandi tele dedicate al tema dei capannoni. Il pubblico potrà sciamare in mezzo alle opere mentre l’autore illustrerà il tema declinandolo nelle innumerevoli forme suggeritegli dal contesto”. E già, perché quella del capannone è una storia – e anche una filosofia – che, afferma Barlozzetti, può essere raccontata in mille modi. “Ci sono luoghi – osserva lo scrittore – che sembrano consegnati al quotidiano, alle ragioni concrete per cui sono stati creati. E che invece possono essere altamente simbolici. Come i capannoni, appunto: luoghi in cui l’antropologia diventa arte, e il lavoro una forma espressiva per il cui tramite l’uomo modifica la natura, modificando se stesso. Vedendo i capannoni di Centonze ho capito che era possibile realizzare un percorso le cui tappe sono le stazioni di una storia possibile. C’è infatti una carica emozionale fortissima e quasi messianica nelle opere dell’artista materano. E così questa processione si snoda dalla capanna, archetipo della casa, fino alla Capanna per antonomasia, quella della Natività, con tutte le raffigurazioni che nei secoli ne sono derivate. Passando attraverso le chiese del Medioevo arriviamo al capannone industriale: che è stato un modello di efficienza e utopia insieme, e in qualche caso, penso al Nordest italiano, l’emblema di un modello di sviluppo. Ma capannoni sono anche i residuati di un ippodromo romano o di uno storico locale di Viareggio. Ed eccoci infine giunti ai capannoni di Centonze”. 

Può apparire singolare che, avendo a disposizione una storia e una geografia come quella dei Sassi, Centonze abbia trovato ispirazione proprio nei capannoni dismessi nella vecchia zona industriale. Ma è proprio l’artista a spiegare che, dopo un’infanzia e una giovinezza passata sui libri d’arte di Palazzo Lanfranchi (“le scuole non servono”, afferma), quando s’è trattato di trovare uno studio per lavorare, non ha pensato neanche per un attimo alla possibilità di trovare un atelier tra i Sassi. Anzi. S’è posto il problema inverso: quello di tenersi lontano da un contesto artistico storico e naturale che avrebbe potuto schiacciarlo. “La bellezza dei Sassi può uccidere un artista”, spiega. “Lasciarsi ispirare dai Sassi oppure tentare di liberarsene è lo stesso.  In un modo o nell’altro si finisce per esserne condizionati. Ecco perché sono finito nella zona industriale della città. Eppure ci sono arrivato quasi per caso. Solo dopo ho capito che quei capannoni abbandonati sono i Sassi di oggi. E a farmelo capire è stato Vittorio Sgarbi. Sa cosa mi diceva? Che, come le antiche grotte dei Sassi, i capannoni sono grandi antri. Epoi, quella luce in fondo… Non escludo che questo, nel mio inconscio, abbia contato, e che attraverso queste strutture riesca a rivivere un passato che mi appartiene. Sta di fatto che per me la luce ha un’importanza decisiva. Ed è, in fondo, proprio un’esperienza luminosa che propongo a chi viene nel capannone. Un’esperienza che, attraversando la luce che batte sulle mie opere, permetta al visitatore di vedere, almeno per un attimo, il vero  se stesso”.

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