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Tre continenti in pochissimo tempo, un libro The Predictive Brain (Sussex  Academic Press) appena pubblicato negli Usa e Inghilterra e un ponderoso  Dicionário das Ciências da Mente (Senac editora) in uscita nelle prossime  settimane in Sudamerica. Cosa c’è all’origine di questa frenetica attività?

 Un’inquietudine inguaribile e, direi, il prender sul serio le cose che si fanno.

Parliamo del libro che, nei giorni scorsi, ha presentato negli Emirati Arabi in occasione della 1° Conferenza Internazionale di Psicologia dello Sport, che ha visto ricercatori di Università di tutto il mondo dibattere temi sportivi e neurofisiologici, psicologici e filosofici, in presenza di grandi campioni dello sport.

Sì, una bella occasione di discussione sui temi più avanzati della medicina e della psicologia applicata allo sport, con implicazioni ben oltre lo sport. La tesi del libro è che il nostro cervello non sia solo un struttura che reagisce agli stimoli esterni, ma che ci permette di fare ipotesi, di anticipare le conseguenze, di formulare aspettative. Tutto ciò molto prima della consapevolezza.

Il libro tratta anche dell’intuizione. Cos’è, precisamente, un’intuizione:  una conoscenza implicita, un sesto senso?

Un’intuizione si presenta, per lo più, come uno scarto del pensiero che si accompagna a una sensazione allo stomaco. Ma non è un sesto senso. È un’intelligenza inconscia, estranea al ragionamento, che ci consente di far più rapidamente  e meglio le cose rispetto alla razionalità cui si affida la nostra società. L’intuizione attinge a risorse depositate, nel corso dei millenni, negli archivi del nostro cervello, che ci consentono di agire rapidamente e spesso  con stupefacente precisione, soprattutto senza affaticare troppo la nostra mente. Nessuno può farne a meno. Nemmeno coloro che pretendono di vivere nell’Olimpo della pura astrazione.

 Senza ragionamento, però, l’intuizione può essere fallace.

È vero. Ma noi non sbagliamo solo quando ci fidiamo della nostra intuizione. Sbagliamo anche quando riflettiamo troppo sulle azioni da compiere, perché ‘soffochiamo’ le nostre sensazioni viscerali, privandoci della loro ‘saggezza’. Lo sanno bene i ballerini, i musicisti, gli atleti professionisti. Il nostro cervello sa molte più cose di quante ne conosciamo. Solo che ancora non sappiamo dimostrarlo.

Ma se non è possibile dimostrarlo, allora non siamo più nel campo della scienza.

 Se questo fosse vero dovremmo tacere sulla gran parte delle cose della nostra vita. Ma la verità non appartiene solo ai sistemi esatti. Viviamo in un mondo, non in mezzo a correnti di elettroni. Siamo esseri dotati di pensieri, non semplici oggetti della psicologia, della fisica, dell’economia, delle scienze sociali. L’ideologia tecnoscientifica prova a farci credere che le cose stanno così. Ma le sue sono estrapolazioni banalizzate ed estremizzate. Che travolgono la stessa storia della razionalità. La scienza non ha niente a che fare con tutto questo.

Niente diplomazie.

Vede, quel che sta gradualmente venendo meno è quello spirito critico che ha a lungo alimentato la ricerca scientifica: la sfida della libertà umana contro i poteri oscurantisti e repressivi. Oggi, ad occupare la scena è il conformismo senza pensiero di una massa di divulgatori scientifici servili verso il nuovo potere della tecnoscienza, seguaci acritici impegnati in una vasta opera di disinformazione e abbrutimento intellettuale. Si tratta di una sorta di proletariato intellettuale che presta al fanatismo della scienza una credulità superiore a quella del contadino medioevale verso il suo parroco; e che prende come rivelazione divina quello che dicono i dottori e gli scienziati nei media di oggi. Questo clima di ostentata efficienza ricorda quel tenebroso personaggio dostoevskiano, Shigaliev, che ne I Demoni delineava il sistema sociale ottimale: nove decimi dell’umanità a gregge, sulla base dei dati “perfettamente logici” delle scienze naturali.

Come siamo arrivati qui?

Perché si è affermato un modello sociale dominato dai principi della scienza avalutativa che sta facendo precipitare la società in un nuovo hobbesiano stato di natura. L’orizzonte della tecnoscienza, indifferente alle domande fondamentali della vita, sarà quello di un termitaio post-umano, popolato di animali ben nutriti, annoiati e violenti. Si guardi in giro. Dopo decenni di opulenza fine a se stessa e priva di scopi, lo  scenario è occupato da uomini che camminano inquieti, senza orizzonte, esposti alle suggestioni più insulse.

Possibile che sia tutta colpa della cultura tecnico-scientifica?

Beh, non in quanto tale. Direi della sua pretesa egemonia. Del resto, anche la cultura umanistica ha le sue responsabilità. Si è adattata troppo facilmente al nuovo ruolo assegnatole di adorna ed erudita conoscenza specialistica, del tutto marginale per la società moderna, se non addirittura, come diceva Veblen, un lusso nocivo.

Questo crescente malessere in un epoca di sostanziale benessere era sconosciuto alle generazioni precedenti.

Oltre i nostri struggenti paesaggi, le metropoli d’Occidente pullulano di individui a caccia di emozioni e di distrazioni. Protestano solo contro determinati aspetti della società o insorgono contro un’organizzazione fondata sul calcolo e la razionalizzazione di ogni aspetto della vita? Lo Stato, fulgida creazione della razionalità occidentale, ha per troppo tempo promesso all’uomo quel che l’uomo profondamente desidera e la vita non gli dà: una condizione stabile, ferma, immutabile, e dunque del tutto diversa dalla condizione naturale della vita che è l’instabilità, la transitorietà, la mutabilità. Non si comprenderebbe questo tempo, senza venire a capo di queste ragioni prettamente psicologiche.

Questa diagnosi è applicabile al Mezzogiorno d’Italia?

Qui da noi questi meccanismi si sono saldati ad altri di natura storico-politica, facendo di questa parte del Paese il deserto lunare dove sono cadute senza rumore, e in un silenzio senza onore, intere generazioni. Ma questa è un’altra storia.

E la scuola? Quali sono le sue responsabilità?

La crisi della scuola, dalla primaria all’Università, più che con misure all’altezza dei problemi è stata affrontata con semplici riforme amministrative. Nel cuore di queste istituzioni serpeggia un’insidia che ne permea i meccanismi ordinari e appiattisce il sapere anziché elevare i livelli di istruzione degli scolarizzati: la banalizzazione. L’educazione è ormai del tutto funzionale alle esigenze della società. Il nostro sistema educativo è volto a generare cittadini prevedibili e, dunque, mira ad amputare l’imprevedibilità, la creatività, l’innovazione.

Come se ne esce?

Nessuno ho soluzioni. Forse invertiremo la rotta se riusciremo a ripensare la nostra stessa civilizzazione con una visione unitaria della vita e del sapere. Quella stessa condizione che aveva offerto a Copernico, Galileo, Keplero, Bacone la possibilità di vivere come uomini educati umanisticamente e, al tempo stesso, di lavorare come scienziati senza lacerazioni della coscienza.

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