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LE dichiarazioni di Cossidente parzialmente accusatorie nei confronti del Riviezzi non sono state spontanee, e soprattutto sono state determinate dall’incontro avuto in carcere di Bellizzi Irpino con l’altro collaboratore D’Amato, col quale, guarda caso, si trovano nella stessa cella». 

E’ quanto denuncia l’avvocato Nicola Cataldo, rispetto all’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei confronti di Saverio Riviezzi, come mandante dell’omicidio dei coniugi Gianfredi, il 29 aprile del 1997.

Nei prossimi giorni le accuse nei confronti del 50enne di Pignola, e dei vertici dei vecchi basilischi finiranno davanti ai giudici del Riesame.

Assieme a Riviezzi il 26 febbraio sono stati raggiunti dalla decisione del gip Maria Zambrano anche il fondatore della “famiglia” tutta lucana, Gino Cosentino, e Carmine Campanella, a lungo tra i più vicini al boss pentito Antonio Cossidente. 

Sulle contraddizioni nelle dichiarazioni di quest’ultimo agli investigatori l’avvocato non fa sconti. Di più evidenzia come in un primo momento fosse stata esclusa la partecipazione di Riviezzi all’organizzazione dell’agguato, salvo rettificare in un secondo momento con «nuovii interrogatori, dopo precisazioni e contestazioni, e nette prese di posizione da parte del Cossidente, condotti in contemporanea da due pm dell’antimafia e da un vicequestore non facenti parte dell’ufficio del Tribunale di Salerno». Abbastanza per «ritenere che si voleva raggiungere un certo risultato». Da parte dell’accusa. «Quindi è stata violata ogni norma per assicurare la spontaneità delle dichiarazioni, ed evitare ogni inquinamento derivante da qualunque tipo di collusione o incontro tra i collaboratori medesimi».

Sul movente Cataldo spiega che il gip del Tribunale di Salerno, accoglie la spiegazione del Cossidente per superare i contrasti rilevati dal gip Romaniello, che per questo 4 anni fa aveva respinto la richiesta di arresti per Riviezzi e Campanella avanzata dai pm di Potenza, prima di inviare le carte per competenza speciale ai giudici campani (nel corso delle indagini sul duplice omicidio è stato coinvolto anche il marito del magistrato che all’inizio si è occupato del caso).

Per Maria Zambrano è credibile che l’agguato sia stato di un gesto di sfida lanciato dai nascenti basilischi ai rivali dello storico clan operante nel capoluogo. Come pure il messaggio mandato in maniera preventiva, in carcere, al boss Renato Martorano chiedendo se gli «interessava» la vittima, per «palesare» la responsabilità per quanto stava per accadere.

«Si sarebbe trattato di una generica intimidazione preventiva». Secondo Cataldo. «Tanto è solo ridicolo perché nei gruppi malavitosi mafiosi vige soprattutto l’omertà, e poi non si da alcun preavviso agli avversari che altrimenti non solo preparano la difesa, ma anche le contromosse per colpire per primi. Nel caso poi si sarebbe addirittura avuto l’assenso del gruppo rivale, il che vuol dire solo che il Gianfredi non faceva parte di alcun gruppo, che era solo un usuraio al quale quindi si voleva dare una lezione per ben altri motivi».

l.amato@luedi.it

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