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POTENZA – «Quando c’è un problema e se qualcuno, vicino a te, ha uno scontro, o ha qualche problema, con qualche persona vicina a me, Anto’ parliamone!».
Così parlava il boss Renato Martorano dopo l’omicidio dei coniugi Gianfredi secondo Antonio Cossidente, il padrino pentito della calciopoli rossoblù e delle relazioni pericolose tra politica, 007 e forze dell’ordine. Le sue dichiarazioni agli inquirenti sull’incontro col capo indiscusso dello storico clan del capoluogo fanno parte dell’ordinanza contro i presunti responsabili dell’agguato che sarebbe maturato per sancire la nascita della nuova “famiglia basilisca”. Un “gesto” che per il gip Maria Zambrano «appare tanto più feroce perché non si inseriva nel contesto di una faida già iniziata ma rappresentava una sfida lanciata al gruppo avversario che avrebbe potuto (come fece) prenderne atto rispettando la presenza sul territorio di un’altra organizzazione criminale o avrebbe potuto vendicare l’attentato, dando luogo così ad un’interminabile scia di sangue (si pensi alla faida Cassotta-Delli Gatti Petrilli)».
Martorano in pratica, stando alla versione accreditata prima dai pm potentini e poi da quelli guidati dall’attuale procuratore nazionale antimafia Franco Roberti (la richiesta di misure cautelari risale a quando era ancora alla guida della procura salernitana, ndr), si sarebbe inchinato di fronte alla forza dei giovani basilischi. In questo senso vanno le dichiarazioni di Cossidente che ha raccontato di avergli mandato un’“imbasciata” a tempo debito per sapere se «gli interessava» Pinuccio Gianfredi con cui era notorio che aveva un rapporto molto stretto, dato che avevano fatto da padrini al battesimo dei rispettivi figli. «Non abbiamo chiesto un permesso!»
Ha raccontato il pentito agli inquirenti perplessi per quell’avviso preventivo.
«Perché sicuramente se io vengo a… vengo a chiedere un permesso a una persona e quella persona poi mi risponde “Sì a me mi interessa” io poi come mi devo regolare? Dico: “Vabbé, una volta che ti interessa, non posso fare più che devo fare?” no! Non era un permesso (…) io ti ho tastato in quel momento. Cioè, si… si usano queste cose: “Ti interessa?” Ovviamente, quando io ti vengo a dire “Ti interessa questa persona? Tu ti trovi in difficoltà. Perché già quando ti dico “ti interessa” vuol dire che c’è qualche motivo, che io te lo sto chiedendo. Allora se sai che c’è qualche situazione nell’aria, o sai che sei in minoranza, puoi dire: “No, a me non mi interessa!”. A posto. Se dici t’interessa, io non ti vengo a dire il motivo, perché tu non me lo chiederai. Io ti dico: “Vabbè, non fa niente”. Ma so sicuramente che domani, tu sei un altro obiettivo. Cioè, è questo il… quindi non è il permesso».
La prova che il messaggio fosse arrivato a destinazione Cossidente l’avrebbe avuta soltanto 5 anni dopo l’agguato quando si sono ritrovati entrambi “a piede libero” a Potenza, e Martorano lo avrebbe aiutato a entrare con i suoi uomini nella gestione della security dello stadio Viviani.«Se ci fosse stata questa cosa se la faceva lui allo stadio (…) Ma lui lo doveva fare perché altrimenti sapeva che si sarebbe messo ancora di più contro. Quindi, la sua intenzione era, al momento della mia uscita, di tenere più vicino e più calma la situazione. Perché dice: “Qua prima o poi, mi fanno pure a me i raggi”. Perché lui lo sapeva. Lo sapeva. Ha chiesto un incontro con me. Ne abbiamo parlato». Martorano, tuttora in carcere a regime di 41bis per scontare una pena a 14 anni per usura ed estorsione aggravate dal metodo mafioso, avrebbe avuto paura di fare la stessa fine di Gianfredi.
«Lui cercava sempre: “Anto’ parliamone per favore… non arriviamo a viso. Non arriviamo a degli scontri. Cerchiamo sempre di tamponare, perché alla fine noi ci ammazziamo o andiamo in carcere. Chi vince…” Il suo motto era: “Chi vince alla fine? Sono loro!” Voi! Quindi, dice: “Evitiamo!”. Ed io ero anche d’accordo con questo».
Dove per “voi” s’intende chi lo stava interrogando.
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