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NELL’ORA di punta il traffico è come un vortice che gira a vuoto ma Kaleb non se ne cura. A quindici anni ci sono cose più importanti, del mondo che ti gira intorno. La fame per esempio. Oppure la macchina che si ferma all’incrocio dove stazioni dalle sei del mattino. Ogni automobilista che aspetta il semaforo verde può essere una piccola luce che si accende nella mente. Qualcuno apre il finestrino e allunga il braccio per una piccolissima concessione. Pochi spiccioli per lavare la coscienza. Kaleb ormai è abituato. La maggior parte della gente pensa che per un ragazzino fermo al semaforo a chiedere l’elemosina, sia quella l’aspirazione massima. Ha le mani congelate e il freddo si è insinuato tra i vestiti fino ad arrivare alle ossa. Non ce la fa più e abbandona la sua postazione. Ha guadagnato i soldi soltanto per qualche panino o un pezzo di pizza calda. Kaleb, quindici anni legati con un filo di spago; assottigliati alla rinfusa, senza un legame vero, attaccati con una colla della quale non si conosce la provenienza. Anni di strade perse e poi ritrovate. Fughe dai Centri di accoglienza, ricercato come un delinquente e sparato sulla vita come un proiettile; sembra tutto scritto, preordinato, inciso sulle tavole della Genesi. Si guarda intorno, incurante del vortice che lo avvolge, dei rumori, di qualche imprecazione lontana. Pensa al suo paese così distante, all’odore insistente della polvere da sparo, alle urla di suo padre ferito, alla fuga in mare. Tasta la fotografia che tiene nella tasca della camicia, quella vicino al cuore, quella dove sono tutti uniti, felici sorridenti. La sua famiglia, i fiori dispersi ad abbellire i giardini di altri continenti. Chiude gli occhi per un secondo, un lunghissimo istante che l’avvolge con dolcezza, e tutto è sospeso, vago, fluido e sinuoso come una dolce sciarpa di lana.
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