Mario Draghi
5 minuti per la letturaL’ABBRACCIO da “sposi promessi” tra Matteo Salvini e Giorgia Merloni (ma Berlusconi mica sarà don Abbondio?) e l’affondo di Goffredo Bettini alla Festa del “Fatto quotidiano” (“Quello attuale non è in nostro governo”) sono lampi nel buio che cercano di rischiarare un “dopo” di cui tutti vogliono impadronirsi salvo non conoscerne le fattezze. Significa che seppur larvatamente e con le contraddizioni che conosciamo, i partiti cominciano a interrogarsi su come sarà il futuro una volta che l’esperienza delle larghe intese e dell’esecutivo emergenziale di unità nazionale dovrà obbligatoriamente cedere il passo.
Detto più brutalmente: in che modo attrezzarsi per le elezioni politiche (quando ci saranno) e, appunto, il dopo che ne conseguirà. Il centrodestra, dato per favorito, cerca un cemento unitario sorvolando con eccessiva disinvoltura sulle divaricazioni interne. Il potere è un collante formidabile e va bene: ma Lega e FI da una parte e FdI dall’altra sono non solo divisi bensì profondamente spaccati su politica europea e ricette per aiutare la crescita del Paese sotto l’usbergo del Pnrr. L’unità è un fatto necessitato e nessuno si sogna di mandare all’aria la possibile vittoria elettorale. Ma nonostante tutto il “dopo” rimane un porto delle nebbie.
Non dissimilmente vanno le cose a sinistra. Dall’alto della sua autorevolezza, Goffredo Bettini rilancia l’intesa con il M5S di Giuseppe Conte, e anche qui si tratta di una scelta necessitata. Ma allo stesso modo che nel fronte opposto è un percorso segnato da forti divaricazioni le quali finora sono state superate con il Pd che ha accettato il ruolo di junior partner (i più critici parlano di subalternità) ma non è detto possa adattarsi nella stessa posizione una volta che, ad esempio, le urne avranno certificato una maggiore consistenza in termini di voti del Nazareno sui Cinquestelle.
Non c’è niente di strano o clamoroso nel fatto che Bettini dica che quello di Draghi non è il governo del Pd. Non si tratta di un attacco al premier ma semplicemente della esplicitazione di come il Pd non ritenga Salvini un partner strutturale di governo.
Del resto la stessa cosa accade nel centrodestra, con la Meloni ferocemente anti-Pd e in cerca della riedizione di un bipolarismo che strozzi nella culla il centro, mentre Salvini non perde occasione per differenziarsi da Letta, peraltro puntualmente ricambiato.
Tuttavia in un simile scenario – che in qualche nodo è un passo di maturità visto che le larghe intese sono il frutto dell’emergenza e di emergenza non si può vivere indefinitamente – il “pezzo” che non si incastra e rimane pericolosamente fuori a pencolare, la tessera che non si incastra in nessuno dei puzzle in costruzione ha un nome e cognome e si chiama Mario Draghi. Stiamo parlando di quel SuperMario che viaggia sul 67 per cento di gradimento popolare; che è l’architrave del ritrovato protagonismo italiano in Europa; l’artefice di quella specie di Rinascimento italiano che dall’esplosione del Pil si allunga fino agli straordinari successi sportivi tricolori di una estate irripetibile. Del pilastro del Pnrr e del manovratore che consente a Roma di parlare da pari a pari con Biden, Johnson, Macron, il successore della Merkel e perfino Xi. Che dove va raccoglie applausi e consensi. Insomma del fulcro e trabeazione dell’edificio Italia: di quella struttura che se la togli viene giù tutto.
Che sia così lo sanno tutti e se nessuno lo dice è perché giocare agli apprendisti stregoni è una tentazione irresistibile di buona parte della classe politica italiana. Però, appunto, uno così che il minimo che si può dire è che è politicamente ingombrante, dove lo mettiamo? Finora leader e forze politiche hanno provato ad esorcizzare la questione preferendo giocare il gioco dell’oca del Quirinale: oggi no, domani sì. Invece è evidente che lo schema va rovesciato: non Draghi dove finisce bensì dove collocare Draghi nel momento in cui l’esperienza delle larghe intese dovesse esaurirsi, magari perché sul Colle, dove l’idea di SuperMario premier è stata partorita e imposta, ci finisce qualcuno che non è Sergio Mattarella.
È evidente che la questione è fondamentale e trattarla con banalità non è possibile. Per quello che ha fatto e intende continuare a fare, Mario Draghi non può essere ridotto al ruolo di comparsa nell’Italia che verrà, né tantomeno sarebbe possibile, neppure in un sussulto di estremo masochismo, pensare di congedarlo con una stretta di mano e tanti ringraziamenti al termine naturale della legislatura. Draghi dove lo metto è l’incubo di tutti. Smantellarne l’immagine e la sostanza, che poi è azione politico-governativa di primissimo piano, è fantapolitica. Finora la questione è stata congelata favorita dal fatto che il lascito dell’ex presidente Bce non avrà il profilo di un partito politico a sua somiglianza o addirittura da lui guidato.
Il partito di Draghi vive trasversalmente nella politica italiana ma non avrà mai un perimetro parlamentarmente definito. Bene: e allora? Allo stato, siamo ancora alle punzecchiature e al gioco di rimessa. Tuttavia è significativo che Salvini per un verso e Bettini per l’altro dicano apertamente che la scelta migliore è spianare il percorso che porterebbe il premier da palazzo Chigi al Quirinale. Meglio ancora se, invece di insistere a pungolare l’attuale capo dello Stato che più volte si è dichiarato contro un eventuale bis, fosse una opzione condivisa che portasse all’elezione già al primo scrutinio. Se invece meglio Draghi continuatore dell’opera da presidente del Consiglio, allora è un’opzione che diventa vincolo stringente perché si può fare solo se la maggioranza resta la stessa, allungando il criterio di emergenzialità.
Qualcuno se la sente? Al momento la fantapolitica sta qui. Ma il rumore di fondo che procura il trascinamento di Draghi verso la madre di tutte le battaglie politiche diventa sempre più forte.
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