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E se fosse il Direttorio, cioè l’ingresso dei segretari o leader di partito con compiti di ministri, la polizza di garanzia per il governo di Mario Draghi? L’ipotesi allo stato è fantascientifica e impraticabile.

Viene di richiamata tuttavia alla mente per un fenomeno che ormai si squaderna in tutta la sua problematicità e che tuttavia pochi scorgono e ancor meno considerano. E cioè la progressiva divaricazione tra i ministri che rappresentano i partiti della larga e sbilenca maggioranza, e i partiti stessi.

Per cui accade che in Consiglio dei ministri il capo del governo discute misure e provvedimenti con i titolari di dicastero e con loro raggiunge – a volte assai faticosamente e in più riprese – intese frutto di complicate mediazioni, e poi fuori dal Consiglio i partiti e i loro leader quelle intese, pur se approvate dai loro rappresentanti titolari di dicastero, contestano e cercano di modificare se non addirittura smantellare.

È accaduto da parte del M5S con la riforma della giustizia elaborata dalla Guardasigilli Marta Cartabia. Riaccade ora con il Green pass e l’eventuale obbligo vaccinale, da parte di Salvini. Non è un caso bensì una deriva che se non bloccata per tempo minaccia di determinare non solo uno iato tra governo, Parlamento e forze politiche ma di modificare “materialmente” un delicato equilibrio istituzionale.

Vediamo. All’indomani della conferenza stampa del presidente del Consiglio, praticamente tutti gli osservatori hanno rilevato la determinazione di Draghi nel procedere sulle misure di sicurezza anti-Covid scavalcando le obiezioni del numero uno del Carroccio e assicurando che seppur tra le sfiancanti fibrillazioni dei partiti di maggioranza, “il governo va avanti”.

Non c’è dubbio che sia così: nessuno, infatti, può permettersi di far saltare l’esecutivo di larghe intese e anzi prende piede lo schieramento trasversale che vuole l’ex presidente della Bce a palazzo Chigi fino al termine naturale della legislatura: salutando a piè pari il nodo dell’elezione del nuovo capo dello Stato prevista per febbraio prossimo. Perciò le baruffe ieri dei grillini oggi dei leghisti (ma in mezzo, più o meno larvatamente, ce ne sono anche di altri partiti) vengono derubricate a impennate dettate dalla campagna elettorale amministrativa oppure a esigenze identitarie e di visibilità delle singole forze politiche.

Già. Tuttavia nelle pieghe di questo scenario si è insinuata una sindrome finora poco appariscente ma di volta in volta più deleteria, per cui i ministri che fanno parte del governo in rappresentanza dei partiti di appartenenza vengono delegittimati da quegli stessi partiti che dovrebbero rappresentare, in un corto circuito che non promette nulla di buono. Si dirà: poco male, tanto alla fine è SuperMario che incarna, di fatto e mediaticamente, l’azione di governo ed è a lui che vengono riferite le responsabilità finali delle scelte. Perché dunque agitare questioni di lana caprina?

Vero, almeno per la prima parte. Però i ministri non sono burattini che agiscono mentre altri tirano i fili. Vale per le forze politiche e i gruppi parlamentari: vale, ovviamente, anche per il premier. L’articolo 92 della Costituzione recita che “il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri”. All’articolo 95 è scritto che “il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile.

Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri. I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Insomma c’è una responsabilità collegiale e il fatto che SuperMario non sia un primus inter pares bensì un primus e basta vista l’eccezionalità della situazione, non modifica il parametro istituzionale del lavoro del Consiglio e l’equilibrio dei suoi componenti.

Naturalmente il problema è tutto politico: i ministri vengono sconfessati dai leader di partito perché è tutto un gioco di scavalco che, nelle menti di chi lo organizza, serve a conquistare consensi rispetto agli altri partner sotto l’usbergo delle larghe intese. Infatti. Ma il dato politico non può offuscare quello istituzionale, altrimenti si crea solo confusione nelle teste degli italiani. I ministri occupano quei ruoli ed esercitano le rispettive competenze non per casualità bensì per precisa scelta politica. E il capo dello Stato li nomina su indicazioni del presidente del Consiglio per le loro specificità e per l’uniforme di appartenenza politica che indossano. Se i partiti, con un sottosopra del tutto paradossale che è complicato da giustificare, ne delegittimano l’operato ripudiandone le scelte quando non fa comodo, hanno due strade davanti: o chiedono di sostituirli proprio perché non più rappresentativi e in sintonia con le decisioni delle forze politiche che li hanno indicati, oppure si assumono con chiarezza, senso di responsabilità e assunzione di doveri, il compito di entrare loro stessi nell’esecutivo di modo che le intese eventualmente raggiunte nel Consiglio siano davvero conformi alle rispettive determinazioni.

Se non è così, anche gli istituti creati ad hoc, come la cabina di regia o altri momenti di confronto, finiscono essere pantomime via via più screditate. Se la sentono leader e presidenti di partito di “metterci la faccia” in proprio nell’azione di governo coadiuvando Draghi e finalmente rafforzandolo invece di gettare ogni giorno pietre di inciampo sul cronoprogramma di palazzo Chigi? Come detto, allo stato è irrealistico. Ma il balletto degli accordi stesi e poi rovesciati porta allo screditamento. A chi giova è complicato da capire.


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