Andrea Paolo Massara
5 minuti per la letturaRICOSTRUIRE il tessuto del teatro. Non è solo una metafora, ma una necessità fisica, come quella che ci insegue come essere umani che affrontano una pandemia con cui faranno i conti per molto tempo al di là degli stessi esiti sanitari. Siamo corpi, carne, ossa, tessuti, che hanno necessità di toccarsi e confrontarsi fra loro. Il teatro da millenni ed in ogni latitudine affronta questo tema. Dice bene Andrea Paolo Massara, autore e sceneggiatore, quando parla di crisi o meglio della più grave crisi di identità del teatro dal dopoguerra.
Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo per la presentazione di “Avvistamenti Teatrali”, importante rassegna dedicata alla drammaturgia contemporanea (che parte oggi), che da anni anima il Parco Torre Marrana di Ricadi e che prova proprio a ripartire dopo lo stop causa covid, ma soprattutto a far ripartire con il suo programma riflessioni e sperimentazioni necessarie ogni volta che c’è una crisi. Perché ogni crisi presenta sempre occasioni ed opportunità da saper cogliere.
Quale saranno i temi e le linee principali di questa edizione di Avvistamenti Teatrali?
«L’associazione Avvistamenti è nata per far innamorare le persone del teatro, in un luogo in cui il teatro appariva un linguaggio vecchio, noioso, complesso, indirizzato ad un pubblico colto. La nostra linea è sempre quella di dimostrare che il teatro può essere per tutti, popolare, senza essere banale. Per questa edizione, abbiamo preferito la qualità all’attualità. Ci è capitato di vedere spettacoli che affrontano anche la pandemia, ma non ci sono sembrati maturi. La famiglia è il filo rosso che lega le storie degli spettacoli che abbiamo scelto, in accordo con Maria Irene Fulco, direttrice organizzativa. A Torre Marrana ci saranno anche alcuni volti amici, che già in passato sono stati ospiti a Torre Marrana. Ci ha fatto piacere immaginare un’edizione di ritorni. Dopo un anno di stop, volevamo che il pubblico si sentisse appunto a casa, come in famiglia».
“Fare teatro questa estate è una sfida alla paura”. Questa è una sua frase nella presentazione di questa edizione di Avvistamenti Teatrali. La trovo essenziale sia perché lo spettacolo è stato forse il settore più colpito dalla crisi causata dal Covid, sia perché noi, come uomini, abbiamo bisogno del teatro e della narrazione. Qual è la sua opinione in merito?
«È senz’altro la più grave crisi del teatro a partire dal dopoguerra. Le compagnie teatrali non vivono solo una profonda crisi economica, è una grave problema di identità. Non andare in scena è come non esistere. In molti hanno rinunciato a fare le prove, gli spettacoli sono tutti da riprendere, da riallestire. Si sta distruggendo il tessuto teatrale, ovvero la pratica, i rapporti fra gli attori, la rete fra teatri e compagnie, l’intesa con il pubblico».
Non crede che lo spettacolo oggi abbia quasi una sorta di “dovere” nell’immaginare e far vedere una vita e degli scenari visto i cambiamenti che stiamo vivendo?
«Spero davvero che nascano spettacoli capaci di confrontarsi con quello che è accaduto. Nessuno di noi ci ha capito niente. Navighiamo tutti a vista, cittadini, politici e persino gli scienziati. Aspettiamo i decreti, abbiamo un po’ di strizza di perdere il lavoro, speriamo di poter fare sempre le vacanze. C’è qualcosa di più intimo e profondo che però non è stato ancora elaborato. Prima del Covid, le persone si baciavano tutte ad ogni saluto e adesso evitiamo ogni contatto fisico. Dove è finito il nostro desiderio di toccare gli altri? A volte abbiamo visto per mesi gli amici solo su skype, con questi strani aperitivi davanti al pc. Il teatro invece è fatto di corpo e presenza. Non è un caso se è il settore più martoriato. E forse è proprio il più adatto a raccontare come siamo cambiati».
Quali sono oggi le differenze sostanziali che riscontra nello scrivere per il palco e per lo schermo?
«Credo siano sempre meno. Negli ultimi anni i due linguaggi s’inseguono a vicenda: a volte il cinema s’ispira al teatro, per mantenere i costi di produzione contenuti. Si vedono sempre più spesso film da camera, ambientati in un unico luogo, con una manciata di attori e una buona storia. In compenso, ho visto molti spettacoli di teatro che invece inseguono il ritmo del cinema e delle serie tv, anche con l’inserimento di riprese in diretta, proiettate su uno schermo, come alcuni lavori di Milo Rau. Insomma, le barriere ormai sono cadute e questo è stimolante per la scrittura».
Quanto sono importanti le radici, e soprattutto la loro rielaborazione, nella scrittura oggi?
«Il teatro si è sempre occupato di questo tema. Basti pensare alle tragedie, dove il confronto con la generazione dei padri poteva generare scontri violenti. In Calabria e nel mondo sta accadendo però qualcosa di nuovo. Ad esempio, sono molte le storie di giovani che tornano a lavorare il terreno dei nonni e diventano a volte anche casi imprenditoriali di successo. Forse oggi cerchiamo un incontro con le nostre radici, c’è un forte desiderio di guardarsi indietro. Consiglio di venire ad Avvistamenti per capirne di più. Un esempio? Antropolaroid il 20 agosto: i personaggi di tre generazioni di una famiglia che s’incarnano in un solo attore!»
Oggi il Sud si trova di fronte alla più grande occasione del dopoguerra. Può raccontare, far evolvere e convergere le sue tantissime radici, i frammenti d’identità, ricordando la sua storia e dimenticando le trappole e le nenie facili dei profeti, cercando di plasmare un corpo nuovo attraverso il teatro. La base di ogni cambiamento.
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