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POTENZA – «Grandi problemi si prospettano all’Episcopato italiano, a cominciare da quello che nasce dal numero eccessivo delle diocesi». A dirlo, il pontefice ai vescovi.

Ma non papa Francesco. A comunicare questa esigenza di tagliare le diocesi – tema ora sotto i riflettori in Basilicata, mentre si attende la cancellazione di quelle di Acerenza e di Tricarico – era Paolo VI. Il 14 aprile del 1964, davanti all’assemblea plenaria dei vescovi in Vaticano.

«Molte diocesi, non poche delle quali minime, e in ogni caso con un numero di fedeli di molto inferiore a quello di una parrocchia di una grande città, impongono uno sforzo organizzativo e un dispendio interno di energie che va chiaramente a scapito dell’impegno e dell’effusione pastorale»: così riferiva Federico Alessandrini sull’Osservatore della Domenica.

La questione è sentita dunque da quasi sessant’anni, quando papa Montini tenne un discorso in cui rappresentò ai presuli una serie di problemi «della vita pastorale contemporanea» e spiegò che «l’organizzazione ecclesiastica è in funzione della missione pastorale affidata alla Chiesa – non è, quindi, fine a sé stessa – e va commisurata alle esigenze effettive della cura delle anime».

Il progetto, in quel lontano sinodo, era di affidare la dieta dimagrante alle cure dei vescovi, ossia all’organizzazione della Conferenza episcopale italiana.

L’azione portata avanti adesso – e che relativamente al territorio lucano è stata confermata dall’arcivescovo di Potenza e metropolita della Basilicata, Salvatore

Ligorio, in un’intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno firmata da Gianluigi De Vito – è governata fortemente da Bergoglio.

«Eh, purtroppo i preti mancano. E allora le diocesi non si reggono», dice a mezza bocca («Io non vi ho detto nulla, eh…») uno dei tanti soggetti ascoltati nella ridda di telefonate effettuate per rintracciare i vescovi interessati. Ma Ligorio è irrintracciabile e altrettanto Francesco Sirufo, vescovo di Acerenza. Giovanni Intini, vescovo di Tricarico, fa sapere cortesemente ma a chiare lettere di non voler dichiarare alcunché.

La questione è ancora più lontana nel tempo: nel 1929 Benito Mussolini aveva condiviso con il Vaticano l’intenzione di far collimare il numero di diocesi e province. Il motivo era politico: far sì che lo Stato, attraverso la figura del prefetto, potesse controllare la chiesa.

Nel protocollo del Concordato, poi, c’era l’articolo 16 che imponeva una revisione delle circoscrizioni diocesane. L’esito fu nullo.

Arriviamo al 1964. Paolo VI indica l’obiettivo da raggiungere. Lo ripeterà il 23 giugno del 1966 davanti alla Conferenza episcopale italiana: «L’operazione è certamente difficile, ma non dovrebbe suscitare il panico e l’opposizione».

Il piano è affidato alla Sacra congregazione concistoriale, che a sua volta incarica negli anni una serie di organismi.

Si parte con la Commissione Rossi e si finisce con la Commissione dei 40 che esegue uno studio rimasto agli annali per serietà e puntiglio. E per apparente drasticità: si parla nel 1968, in questa ricerca lunga circa 3.000 pagine, di ridurre il territorio italiano a 119 circoscrizioni ecclesiastiche. Le diocesi sono 325. La suddivisione in unità sperimentali non riesce ad attecchire. Come documenterà la rivista Jesus quasi vent’anni dopo, si registra una resistenza non solo nella chiesa ma anche nel governo italiano.

E’ la revisione del Concordato, nel 1984, a dare nuovo impulso al progetto. Uniscono le forze la Congregazione per i vescovi, il Consiglio per gli affari pubblici della chiesa, la Nunziatura apostolica in Italia e la Conferenza episcopale italiana. Le conclusioni sono sottoposte a Giovanni Paolo II che, il 27 settembre 1986 in udienza, approva i criteri e conferisce “speciali facoltà” alla Congregazione per i vescovi. Si arriva a 226 diocesi, ossia 99 in meno.

Papa Francesco, quasi trent’anni dopo, si ritrova fra le mani un numero comunque eccessivo di curie, quasi il doppio di quelle che la Commissione dei 40 indicava come numero ideale (e sostenibile). Due mesi dopo la sua elezione, il 23 maggio 2013, Bergoglio raduna i vescovi italiani e dichiara: «Io so che c’è una commissione per ridurre un po’ il numero delle diocesi tanto pesanti. Non è facile, ma c’è una commissione per questo. Andate avanti con fratellanza».

Da allora qualcosa è stato fatto. Ha unito “in persona episcopi” (nella persona del vescovo) Fossano a Cuneo, Palestrina a Tivoli, Lanusei a Nuoro, Fabriano a Camerino, Modena a Carpi, Alife a Teano, Ischia a Pozzuoli, Pitigliano a Grosseto, Foligno ad Assisi, Ales a Oristano. Oltre alle “amministrazioni apostoliche” di Susa-Torino, Porto Santa Rufina-Civitavecchia, Mileto- Locri.

Ora sarebbe la volta di Tricarico e Acerenza, che verrebbero aggregate a Matera-Irsina la prima e a Melfi-Rapolla-Venosa la seconda. Rimarrebbero intatte Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo e Tursi-Lagonegro.

Il criterio dovrebbe essere quello del numero di abitanti, con la cancellazione di chi ne ha meno di novantamila: sono 34.670 su 1.238 km quadrati a Tricarico, 39.940 su 1.278 km quadrati ad Acerenza.

I vescovi ne sono consapevoli da tempo. Sono anni che si parla di cancellare due o tre diocesi. Il primo febbraio scorso la Conferenza episcopale della Basilicata si riunì. E parlò di come «tante comunità vedono, man mano, diminuire il numero dei propri abitanti, e in quale modo si può continuare a offrire un’attenta cura pastorale al popolo di Dio, che risponda sempre meglio alla compagine che si prospetta davanti a tutti noi».

Le diocesi sembrano condannate. Ma anche la stessa Conferenza episcopale regionale rischia: quattro diocesi sembrano poche perché esista ancora. Bisognerà vedere se il papa ascolterà Ligorio quando chiede di mantenerla in vita.

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Alfonso Pecoraro

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