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Una scena del film

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Lo abbiamo detto in tanti. In cinema e letteratura la Calabria è atavicamente imprigionata in un’iconografia stereotipata che oscilla tra la pittoresca arretratezza delle trattorie con tovaglia a quadretti alla Muccino e le efferatezze della criminalità.

Ma abbiamo detto anche che raccontare la ‘ndrangheta non deve essere tabù: quello che conta è lo sguardo, il linguaggio. Ecco perché è un’operazione originale e interessante quella del film “A Classic Horror Story” di Roberto De Feo e Paolo Strippoli, produzione Netflix dove l’altra novità assoluta è la Calabria come luogo evocativo.

Non set fisico del film, ma luogo di ambientazione della storia, dove per una volta la regione meridionale con meno aplomb surclassa le suggestioni delle vicine Sicilia e Puglia – che in materia di crimine organizzato, nel bene e nel male, hanno sempre dettato legge nell’immaginario cinematografico. In campo letterario accade anche nel romanzo dell’americano best seller Glenn Cooper, “Il tempo del diavolo”, dove in una località vacanziera calabrese due ragazzine sono protagoniste di una vicenda inquietante di sparizioni.

Certo negli ultimi anni qualcosa è cambiato e la personalità della ‘ndrangheta si è imposta nella fiction, diventando più riconoscibile al grande pubblico. Così in questo film – che più di genere non si può – un gruppo di ragazzi che viaggiano insieme con il carsharing, diretti verso lande calabre, dopo uno strano incidente si ritrovano in una foresta isolata e misteriosa, da cui sembra impossibile uscire per chiedere aiuto.

Celata dalla muraglia di alberi c’è pure una casetta da incubo, scura, fatiscente e dal design gotico. Sembra lo scenario di un perfetto film horror, situazione che non dovrebbe dispiacere a Fabrizio (il “cesarone” Francesco Russo), calabrese aspirante regista che studia cinema a Roma ed è il proprietario del camper condiviso dai viaggiatori. Ma presto il gruppo si accorge che la casa e il bosco sono teatro di cruenti sacrifici umani ad opera di una comunità di contadini che s’ispira alle imprese dei cavalieri Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che la tradizione orale indica come i fondatori della mafia.

La scoperta dà il via a una mattanza splatter, tra raccapriccianti mutilazioni, altari di paglia e fieno (una citazione dell’eccelso “Midsommar” di Ari Aster) e riti collettivi celebrati da adepti con maschere cornute come ai tempi dei “cavalieri d’amuri”. Inutile dire che gli amici saranno barbaramente uccisi – tra loro anche uno scontroso medico che nasconde un segreto (Peppino Mazzotta, bravissimo anche in questo ruolo inconsueto, che lascia gli istrionismi dell’accento oriundo al non calabrese Russo e per metà della sua partecipazione al film cela le sue origini). Unici a restare in vita sono Fabrizio e la bella Elisa (Matilda Lutz), incinta ma pressata dalla famiglia ad abortire per dedicarsi a una promettente carriera.

Proprio Elisa capirà che questa non è una “classica” vicenda di riti satanici ma il set di uno snuff movie. I sanguinari contadini sono stati infatti assoldati dalla sindaca di un paese mai nominato ma messo molto male (Cristina Donadio), che per non far morire di fame i suoi cittadini è entrata nel giro del portale clandestino Bloodflix e lucra realizzando, appunto, video con vere truculente esecuzioni. Venerata e obbedita dalla sua gente, che la chiama mamma, la sindaca assicura pane e protezione in cambio dei servizi del suo personale esercito.

È la ‘ndrangheta 2.0., che nonostante i suoi intrecci affaristici internazionali, con la crisi sta entrando in affanno e deve aggiornarsi alle ultime richieste del mercato. Ovvero sangue e voyeurismo. Il genio incompreso Fabrizio, regista dei filmacci, sogna invece di venderli a Hollywood e diventare famoso riscattando anni di reputazione da geek sfigato trasformando i tre cavalieri mafiosi in Jason, Freddy e Pennywise.

Sullo sfondo (che è una foresta umbra sorprendentemente simile alla Sila), l’atmosfera meridionale cede alla tentazione di qualche cliché (la soppressata, i canti di malavita eseguiti da voci innocenti instradate alla fidelizzazione, le radioline dell’anteguerra che mandano Gino Paoli e la “casa molto carina” di Sergio Endrigo, distopica colonna sonora delle esecuzioni).

Resta la domanda ideologica di cui sopra: una storia così fa bene alla Calabria? “A classic horror story” è una fiaba nera, dove, come ci hanno insegnato i Grimm, i mostri esistono e sono cattivissimi. Tocca ai buoni affrontarli e sconfiggerli, ma per riuscirsi bisogna essere buoni davvero. Come in ogni horror che si rispetti, anche stavolta a rivelarsi è la metà oscura nascosta dentro di noi, quella che ci rende complici, foraggiando il male. 

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