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Un'aula di tribunale

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Proviamo a far ordine su questo immane conflitto tutto italiano sulla giustizia. Tanto per cominciare, è un problema soltanto italiano: in ogni paese del mondo civile e democratico la giustizia funziona come un servizio pubblico fondamentale, alla stregua della sanità e dell’istruzione. I giudici sono dei dipendenti statali che hanno ottenuto il loro posto grazie ad una laurea in giurisprudenza e un concorso pubblico, ma non sono detentori di alcun potere separato da quelli rappresentati in Parlamento, dalla costituzione, dalle leggi stesse, dall’arbitrato del presidente della Repubblica, il quale in Italia è anche presidente del consiglio superiore della magistratura nonché di quello delle forze armate.

La giustizia italiana non funziona. Non funziona da decenni perché le cause civili e penali si trascinano con rinvii continui che le fanno durare decenni ad altissimi costi per il contribuente e per le parti coinvolte costrette a pagare parcelle e carte bollate in gran quantità.

La giustizia non funziona per due motivi. Il primo è di ordine tecnico gestionale: gli uffici sono disordinati e intasati, mancano cronicamente cancellieri, segretari, computer funzionanti, connessione Wi-Fi, archivi elettronici, personale tecnico specializzato che si aggiunge a quello togato.

L’altro motivo è di natura politica: in Italia e soltanto in Italia, i magistrati sono divisi in associazioni corporative che si richiamano ai partiti politici rappresentati in Parlamento, come accadeva un tempo ai sindacati legati al PCI o alla DC e ai socialisti: cuius regio, eius religio: apparterrai alla corporazione che ti fa fare carriera e obbedirai alle sue direttive come un cadavere, perinde ac cadaver. Questo è severamente vietato, ma allegramente tollerato.

Essendosi suddivisi in correnti che una volta erano democristiane, socialiste, comuniste, di destra o indipendenti, cui oggi ai vecchi partiti si sono aggiunti nuovi movimenti particolarmente i 5 Stelle, qualche leghista e forse benché non se ne abbia mai avuta notizia, qualcuno di Forza Italia. La giustizia si divide in civile e penale e da problemi diversi se civile o penale.

La giustizia civile e quel mostro che mette in fuga le aziende straniere, le quali prima di investire in Italia si informano sui costi e i tempi di un’eventuale causa giudiziaria e dopo avere avuto il quadro della situazione investono o si trasferiscono in Croazia o Slovenia, lasciando senza lavoro gli sbalorditi operai italiani, i quali non capiscono perché una ditta piena di commesse se ne vada in luoghi in cui si sente più sicura.

L’altro grave problema della giustizia dipende dall’equivoco rappresentato dal Consiglio Superiore della Magistratura, detto anche l’organo di autogoverno della stessa. Questo organo di autogoverno in passato aveva anche il potere di aumentare gli stipendi dei magistrati, provocando a catena l’aumento degli stipendi dei parlamentari secondo il principio per cui chi fa le leggi non può guadagnare meno di chi le applica.

Questo organo di autogoverno dei magistrati fa tutto lui: stabilisce le carriere, le assegnazioni alle diverse Procure cittadine, la disciplina e anche quali casi abbiano la priorità. Si tratta della gestione di un totale potere discrezionale che, paradossalmente, dovrebbe impedire ogni discrezionalità. Pochi ricordano in genere che in Italia esiste un criterio puramente retorico che si chiama “obbligatorietà dell’azione penale”.

Questa obbligatorietà – che dovrebbe eliminare ogni ipotesi di impunità – significa che ogni denuncia deve essere seguita da una indagine e poi se emergono elementi sufficienti in una istruttoria ed eventualmente da un processo. Di conseguenza, si accumulano sul tavolo di ogni Procuratore capo della Repubblica decine, centinaia, migliaia di fascicoli. E poiché l’obbligatorietà dell’azione penale non può essere soddisfatta perché le forze e i numeri non lo consentirebbero mai, ne consegue che ogni Procuratore a sua discrezione stabilisce con i suoi personali criteri la priorità dei fascicoli e li assegna – sempre a totale sua discrezione – ai suoi sostituti più fidati. è la vecchia storia della Fattoria degli Animali di George Orwell in cui tutti gli animali sono uguali, salvo i maiali che sono più uguali degli altri.

La conseguenza è evidente: alcune cause vengono avviate e andranno avanti fino alla fine mentre altre resteranno sul fondo del pacco della pila dei dossier. Essendo i magistrati degli esseri umani soggetti a tutte le intemperie del carattere di regolare dell’etica, della fragilità e degli interessi, ne consegue che questa autonomia e indipendenza suddivisa in fazioni politiche e sindacali porta alla trattativa. Non quella fra stato e mafia ma quella fra magistrati e politica.

Lo abbiamo visto in tempi recenti più di una volta quando i magistrati di una procura hanno scoperto che altri magistrati di un’altra procura si incontravano per dirsi non solo le cause da fare ma anche i loro esiti. Sentenze in cambio di favori, favori in cambio di sentenze. Non è neppure il caso di ripetere l’ovvio, ma lo facciamo ugualmente per senso del dovere. È ovvio cioè che i cattivi comportamenti cui stiamo accennando riguardi soltanto una parte dei magistrati mentre esiste una parte prevalente, predominante che invece non ricorre a questi sotterfugi, si comporta in maniera normale, cioè onorevole.

La conseguenza delle lungaggini di una magistratura che finora non ha mai dato prova di efficienza, salvo casi sporadici, i quali a loro volta dimostrano che è possibile agire in tempi rapidi e normali, e che un processo può durare una vita. Ecco perché in Italia come in ogni altro paese esistono delle norme per cui trascorso un certo periodo di tempo alcuni reati vanno in prescrizione, ovvero non possono essere perseguiti oltre un certo limite di tempo. Di conseguenza è diventato parte della strategia di difesa degli imputati cercare di allungare la broda il più possibile in modo da conquistare i tempi prossimi alla proscrizione.

Di fronte a questa anomalia si può agire in due direzioni: la prima è rendere la magistratura tecnicamente efficiente con riforme drastiche che le impongano un funzionamento da servizio pubblico; oppure assecondarla nel suo vizio della lentezza e concederle la facoltà di non far finire mai i processi.

Ed anzi, qualora un processo si concludesse con l’assoluzione dell’imputato, concedere la garanzia al magistrato d’accusa di poter sempre ricorrere e ricominciare da capo, senza smettere di perseguire l’imputato che dunque resterà un imputato a vita. Questa è la principale ragione per cui l’Europa ha detto: cari italiani, se volete i soldi per la ripartenza del vostro Paese, dovete darvi una drastica riforma che vi metta sullo stesso livello di dignità degli altri paesi europei. Questo è il motivo per cui il governo Draghi ha subito dato mano a una prima riforma che porta il nome del Guardasigilli Marta Cartabia, ex presidente della Corte costituzionale e secondo molti destinata ad essere la prima donna al Quirinale. Ma la riforma Cartabia che è stato introdotta dal governo Draghi ha dovuto limitarsi a correggere soltanto uno dei più macroscopici scandali per cui la giustizia italiana è stata marchiata come indegna di un paese moderno civile democratico.

Lo scandalo era quello della cosiddetta riforma Bonafede, che garantiva ai procuratori il diritto di perseguire in eterno qualsiasi cittadino della Repubblica. Tutti sappiamo che nei paesi di diritto anglosassone un cittadino non può mai essere processato due volte per lo stesso reato. Mai. Neppure se si scopre dopo che era colpevole. C’è un famoso film di Hitchcock il cui elemento di suspense è fondato proprio su questo tema: l’assassino viene prosciolto grazie alla sua geniale pianificata criminalità, e quando viene assolto confessa di essere colpevole ma nessuno lo può più arrestare o imprigionare.

Questo è un caso paradossale di giustizia beffata dai suoi stessi limiti garantisti, ma nei paesi democratici si considera sempre che è meglio un colpevole in libertà che un innocente dietro le sbarre. La riforma Cartabia ha ricondotto entro i limiti ragionevoli la normativa della prescrizione, stabilendo che oltre un certo limite di tempo un reato non è estinto cioè cancellato, ma cessa di essere perseguibile. Questo dovrebbe essere inteso come una frustata sulle braccia da parte del Parlamento alla magistratura per costringerla a comportarsi come le magistrature di tutti gli altri paesi del mondo che non hanno meno mafie, meno terrorismo, meno corruzione che da noi. Ma da noi soltanto esiste la grande anomalia. Abbiamo visto e udito un procuratore insorgere apertamente contro il testo di una Legge dello Stato sostenendo che allora è meglio andare a delinquere. Il governo Draghi e la sua Guardasigilli hanno garantito che la legge arriverà in Parlamento in modo tale da impedire che i grandi colpevoli di mafia e di terrorismo possano farla franca grazie ad espedienti tattici fondati sui tempi di prescrizione.

Lo stesso Beppe Grillo, che tecnicamente è un pregiudicato incandidabile per qualsiasi ufficio pubblico e ineleggibile al Parlamento, ha sostenuto che il suo movimento è benemerito perché ha assorbito tutta quella rabbia e furia delle folle inferocite per l’impunità dei grandi criminali, e che quindi il movimento delle 5 Stelle è un ammortizzatore dell’ira popolare, un po’ come le cozze sono i filtri delle tossine marine. In altre parole, questa è una posizione che si esprime in un ricatto: se voi non cedete alle nostre richieste populiste e forcaiole così come ce le recapitano i cittadini più rozzi e violenti di questo paese, noi scateneremo le piazze e vi verremo a cercare con i forconi. Grillo sbaglia perché quel periodo del forconismo-leninismo è finito: oggi belano tutti, e al massimo vanno a guaire stenti slogan che invocano libertà, libertà, libertà, prendendosela col Green Pass di cui tutti dobbiamo appropiarci per provare la nostra incapacità di far del male agli altri.

Tuttavia, nuovo leader del movimento è diventato Giuseppe Conte, il quale si trova con questa patata bollente di dover contentare due padroni: l’impegno preso da Grillo di non ostacolare il governo Draghi e l’impegno nei confronti della base che si sente totalmente beffata da una banale riforma di natura civile come quella firmata dal Guardasigilli Cartabia. Questo è lo stato delle cose. Draghi ha spiegato a Conte che non ci pensa affatto a modificare la riforma Cartabia in senso persecutorio, ma è disposto a correzioni puramente tecniche, qua e là per migliorarne il testo e forse la lettura con qualche virgola e qualche cancellazione.

A questo punto si sta giocando la partita finale: Conte dichiara di non volere causare la caduta del governo alla vigilia dell’inizio del semestre bianco e finge di essere soddisfatto della promessa di Draghi di ritoccare la riforma Cartabia e vedere che cosa ne esce fuori. Draghi è stato chiarissimo dal dire che non ne uscirà fuori altro che un testo perfettamente uguale al primo nella sostanza, benché aperto a qualche miglioramento letterario o forse di piccole modifiche tecniche.

C’è da ricordare, poiché è in corso la raccolta firme dei referendum abrogativi con cui il popolo sarà chiamato se le firme saranno sufficienti a vibrare mazzate brutali sul sistema giudiziario intervenendo sulla divisione delle carriere, i tempi, i modi, e anche la natura stessa del Csm, un organismo talmente ingovernabile che nel 1985 un presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, ritenne di dover far circondare dalle camionette dei carabinieri in tenuta anti sommossa, manganello maschera antigas, elmetto e manette per ricondurre gli abitanti di palazzo dei marescialli in piazza indipendenza a Roma alla ragione. Da allora però le cose non sono migliorate, ma anzi sono peggiorate e i nodi stanno venendo tutti al pettine.

L’uomo giusto al posto giusto cioè sempre Mario Draghi tutto questo lo sa e sa anche che se le riforme non saranno fatte in modo tale da soddisfare l’Europa l’Italia potrebbe pagare un prezzo enorme per una tale distrazione. E possiamo dunque essere sicuri che ciò non accadrà.


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Simone Saverio Puccio

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