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Il ramo fiorito del pero, con la finestra aperta, entrava in casa; la teglia consunta dal tempo riposava su un letto di brace sotto un coperchio di cenere ardente. Un po’ più in là nell’immensa cappa del camino la padella annerita cuoceva fumanti polpette. La porta d’ingresso era sempre aperta, d’inverno e d’estate, a segnare un legame profondo con la campagna circostante. Addossata ad una parete c’era la credenza già antica con il cassetto segreto di mio zio più giovane, quello non sposato, il ragazzo. Ad ogni sua momentanea assenza quel piccolo quadrato di legno con il pomello diventava per noi, piccoli curiosi, uno spazio da scrutare, da violare per non trovare, però,  poi,  nulla di interessante.
Con la finestra chiusa il ramo di pero fiorito diventava un quadro definito e distinto; lo spazio aperto al di là della porta aperta rimaneva immenso. Questo è ciò che ricordo della cucina di mia nonna, ma soprattutto ricordo lei che la riempiva con la sua presenza, con la grata gioia di averci lì la domenica a pranzo. Mia nonna era una bella donna tonda con la pelle chiara e gli occhi azzurri come il cielo; li aveva ereditati mio padre, ma i suoi erano azzurri come il mare. L’altra mia nonna non friggeva polpette; non aveva mai potuto, lei, anziana vedova , mamma di dodici figli, stanca e dimessa dopo una vita troppo difficile ma, seduta al camino, con i ferri per le calze in mano, ogni giorno, tutto l’anno ci regalava i suoi splendidi racconti, le “rumanze”.  
Da grande ho scoperto che quelle favole meravigliose con uomini fatti di pietra, cavalieri erranti e uccelli verdi altro non erano che le epiche gesta di personaggi come Roncisvalle, Tristano e Lancillotto. Noi, piccoli, tutti intorno a lei in rigoroso silenzio e, a dire il vero, in quei momenti stavano zitte anche mia mamma e le sue sorelle. 

Il ramo fiorito del pero, con la finestra aperta, entrava in casa; la teglia consunta dal tempo riposava su un letto di brace sotto un coperchio di cenere ardente. Un po’ più in là nell’immensa cappa del camino la padella annerita cuoceva fumanti polpette. La porta d’ingresso era sempre aperta, d’inverno e d’estate, a segnare un legame profondo con la campagna circostante. Addossata ad una parete c’era la credenza già antica con il cassetto segreto di mio zio più giovane, quello non sposato, il ragazzo. Ad ogni sua momentanea assenza quel piccolo quadrato di legno con il pomello diventava per noi, piccoli curiosi, uno spazio da scrutare, da violare per non trovare, però,  poi,  nulla di interessante.

Con la finestra chiusa il ramo di pero fiorito diventava un quadro definito e distinto; lo spazio aperto al di là della porta aperta rimaneva immenso. Questo è ciò che ricordo della cucina di mia nonna, ma soprattutto ricordo lei che la riempiva con la sua presenza, con la grata gioia di averci lì la domenica a pranzo. Mia nonna era una bella donna tonda con la pelle chiara e gli occhi azzurri come il cielo; li aveva ereditati mio padre, ma i suoi erano azzurri come il mare. L’altra mia nonna non friggeva polpette; non aveva mai potuto, lei, anziana vedova , mamma di dodici figli, stanca e dimessa dopo una vita troppo difficile ma, seduta al camino, con i ferri per le calze in mano, ogni giorno, tutto l’anno ci regalava i suoi splendidi racconti, le “rumanze”. 

Da grande ho scoperto che quelle favole meravigliose con uomini fatti di pietra, cavalieri erranti e uccelli verdi altro non erano che le epiche gesta di personaggi come Roncisvalle, Tristano e Lancillotto. Noi, piccoli, tutti intorno a lei in rigoroso silenzio e, a dire il vero, in quei momenti stavano zitte anche mia mamma e le sue sorelle. 

(Pubblicato sull’edizione cartacea del Quotidiano dell’8 novembre)

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